Decentrato, planetario, inclusivo. Appena un anno fa a Roma iniziava l’Anno Santo dedicato alla Misericordia. Bergoglio, contravvenendo al protocollo, aveva tagliato il nastro nella Repubblica Centrafricana, terra in cui sono «rappresentate tutte le sofferenze» di un popolo. Bangui, proclamata per l’occasione «capitale spirituale del mondo», ospitava una cerimonia inaugurale celebrata con oltre una settimana d’anticipo sulla data ufficiale.
Scelta periferica, in sintonia con la “provocazione” da cui aveva preso le mosse il Giubileo Straordinario: mettere al centro gli “Hinterland” umani ed esistenziali di ogni angolo del globo, gli esclusi dalla società, ma non dalla Misericordia di Dio. Senzatetto, ex prostitute, carcerati. A popolare gli incontri di Bergoglio le anime che abitano la notte, affollano le celle buie, consumano i marciapiedi di città. Non la discesa agli Inferi di un eroe, ma l’attraversamento della realtà di un uomo che dubita. «Perché loro e non io?» ha domandato a una platea di detenuti, riecheggiando quel controverso «Chi sono io per giudicare». Ma non chiamatelo Superman.
Francesco per primo diffida dalle letture ideologiche, guarda con sospetto alla mitologia sedimentata attorno al culto della sua persona. Lo street artist capitolino Mario Pallotta, strizzando l’occhio alla “Francescomania”, lo aveva immaginato sorvolare i cieli di Roma proprio come un paladino senza macchia, avvolto in un mantello bianco, sorridente e un po’ spavaldo. Stretta dalla mano sinistra la sua valigetta strabordante di “Valori” pronti per essere dispensati a quanti ne fossero sprovvisti. Il graffito, comparso nel 2014 a Borgo Pio, aveva avuto vita breve. Stessa sorte sarebbe toccata alla fortunata intuizione di “Maupal” rimossa dall’Ama qualche tempo dopo, quando la vernice era ancora fresca. Era il 19 ottobre scorso. A pochi passi dalla Basilica di San Pietro prendevano forma i contorni di un Bergoglio che si improvvisava “writer”. Una guardia svizzera faceva da palo, mentre il Papa col pennello vinceva la sfida a filetto: contro la guerra trionfava un tris di pace. «Tenero» commentava fuori tempo massimo Luca Bergamo, assessore alla Crescita culturale.
Nei giorni successivi alla rimozione aveva tentato di rimediare. Sull’onda dell’entusiasmo un po’ ostentato per i capolavori spontanei del tessuto metropolitano veniva esposta in Campidoglio una riproduzione dell’opera originale, mentre Pallotta, convocato con gran clamore, riceveva la consacrazione istituzionale. La vicenda si lasciava alle spalle la consueta scia di polemiche. Dalle insinuazioni sulla furbesca operazione di marketing che avrebbe guidato la mano esperta del writer, ai paradossali risvolti del misunderstanding tra la solerte Municipalizzata e la Giunta.
Al di là dei qui pro quo di rito, grattando la superficie di quegli esuberanti murales, affiora una controversia dal gusto spirituale, che va ben oltre la gestione del decoro urbano e la disputa estetica sulla qualità delle opere, roba da critici e professionisti del settore. La Chiesa come popolo che cammina in mezzo al popolo, «ospedale da campo» che raccoglie qua e là i «feriti sociali» sembra parlare una lingua non troppo diversa da quella masticata dai poeti dei muretti, dagli sceneggiatori degli affreschi cittadini: «persuasiva, evocativa, immediata». Stessa narrazione disordinata e «appiccicaticcia». «Veloci figure a presa rapida» fioriscono dai discorsi dell’Argentino proprio come le immagini suggestive che germogliano sui muri di città.
Stando alle parole di Enrico Maria Radaelli, Bergoglio ha tutta l’aria di essere il primo felice esponente della “Street theology”, declinazione cattolicizzante di quella Street Art che nella sua forma primitiva evoca bombolette spray usate come ferri del mestiere, spedizioni notturne condotte nei cunicoli urbani, “arzigogoli” impressi sugli spazi bianchi dei metrò. Oggi, fenomeno ampiamente sottratto alla clandestinità per riempire le gallerie di facoltosi mecenati.
Il docente di Filosofia dell’Estetica nel saggio pubblicato ad agosto da Fede e Cultura non ha risparmiato il suo giudizio severo sugli scempi visivi metropolitani prodotti da «migliaia di ragazzotti in manovalanza libertaria permanente». Se il «miserabile graffitismo di una cultura suburbana squattrinata» è stato elevato a «proposta sofisticata e visionaria», con la stessa irruenza la teologia della strada predicata da Francesco si impone come «il fenomeno mediatico-religioso più dirompente del nuovo secolo». In comune hanno l’essenza «effimera, provocatoria, a effetto, in perenne controtendenza, ingenua e iper kitsch, molto underground». Per tradurre, l’abbruttimento indotto dall’una e la prepotenza persuasiva usata dall’altra andrebbero a braccetto, nutrendosi entrambe del medesimo ribellismo vuoto e approssimativo.
Ma come ci è finito Papa Francesco ritratto con scarpe da ginnastica fiammanti, skateboard e attitudine da bullo sulla copertina di un libro che si propone di affrontare da un punto di vista cattolico il tema della scristianizzazione? Ѐ iniziato tutto con uno «studiatissimo e volutamente disorientante Buonasera» o forse molto tempo addietro. Il primo a mettersi in marcia è stato Roncalli. Non un cammino qualsiasi, ma la Grande Fuga dalla forma dogmatica, dalla responsabilità, dalla propria identità... «Vergognosa ritirata» spacciata per nuovo e più misericordioso indirizzo pastorale. Ribaltamento del sistema Verità-Libertà, dimensionamento della papalità, ossessione del consenso, timore dell’uomo anziché di Dio. E questo è solo un assaggio del lungo elenco di errori compiuti dalla Chiesa, lista sciorinata da Radaelli nelle pagine del suo Street Theology.
Intanto infuria la bufera antidogmatica e si consuma la guerra tra le due forme di magistero. Sullo sfondo un panorama desolante: il “dramma” della deriva laicista e della desertificazione ateistica che sta prosciugando la religiosità tradizionale di un’Europa un tempo cristianissima. Il ritorno al dogma, dunque. Non c’è altro argine allo spopolamento delle parrocchie. Neppure la ricetta di misericordia pasticciata da Francesco, reo per Radaelli di suscitare aspettative destinate alla frustrazione. Un’illusione collettiva, un abbaglio. Come i murales estirpati a colpi di sentenze perché non previsti dai progetti originali degli edifici, così l’insegnamento pastorale inclusivo e sloganistico si sgretolerà dinanzi alla bellezza senza tempo di Giotto e Michelangelo, fuor di metafora al cospetto del magistero perenne della Chiesa.
La partita si gioca sul campo dell’equivoco, dell’ambiguità e ancora una volta del linguaggio. Il pensiero corre subito all’Amoris Laetitia, il documento post sinodale da mesi nell’occhio del ciclone. Sotto accusa l’oscurità di alcuni passaggi, la formula confusionaria adottata. Non c’è traccia di «legittimità teologica» sentenzia lo studioso. Proprio come nelle belle parole degli Angelus domenicali. La dottrina è un’altra cosa.
Ludovica Passeri
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