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17/11/24 ore

PD, tra partito del futuro e residuo di un passato morto


  • Silvio Pergameno

La vittoria del “NO” al referendum del 4 dicembre u.s. ha scatenato una vera e propria gara fra le legioni di quanti si chiedono: “E adesso cosa farà Renzi?”, una domanda cui seguono altrettanti interrogativi: Si ritira? Farà solo il segretario del PD? Farà una nuova legge elettorale? Aspetta la sentenza della Consulta sull’Italicum?, Prepara elezioni anticipate per il prossimo maggio? O per il prossimo ottobre?…. In realtà si tratta di una domanda sbagliata.

 

Sbagliata perché Renzi non è un fenomeno isolato, una persona singola concentrata su se stessa. Renzi ha un senso in quanto componente essenziale del tessuto del PD, di quella parata di personaggi che animano il palcoscenico del suo partito, tanto multiformi quanto incomprensibili. Si proprio incomprensibili, perché dalle quotidiane scaramucce tra il Segretario e la sinistra del Partito non è mai emerso uno scontro di idee, di linea politica, di programmi, di forma partito o della natura stessa del partito…e della storia delle sue componenti.

 

Il famoso “Italicum” poi è una legge sulla quale la sinistra del partito si è espressa favorevolmente in Parlamento mentre la rottamazione non pare abbia lasciato né morti né feriti, per cui lo scontro sembra contenuto al livello personale e lo stesso fatto che a Renzi agli inizi fosse venuto in mente di mettere in gioco direttamente la sua persona sul referendum sembra confermarlo. Ma in realtà non si può ignorare che la vicenda del PD è intessuta di problemi irrisolti, potremmo anche dire di un problema irrisolto e che risale alle sue origini.

 

Il PD è sorto dalla convergenza di quanto restava dei due maggiori partiti della prima Repubblica: della Democrazia cristiana e del Partito comunista. Ma come, viene fatto di chiedersi (o almeno dovrebbe venir fatto di chiedersi), come è possibile che i due avversari storici abbiano potuto anche soltanto pensare di mettersi insieme in una sola formazione politica? Che cosa avevano in comune?

 

E poi… ma non era storia del novecento che comunismo, socialismo e socialdemocrazia avessero una matrice comune e una cultura di base comune, quel marxismo che forniva risposte a tutti i problemi, ma in realtà senza risolverne veramente nessuno, che tutte e tre le tendenze avessero preso corpo in una storia di scissioni e riunioni, mentre poi, nel momento in cui uno dei tre frutti cadeva esausto, non fosse uno degli altri due - il PSI - a raccoglierne l’eredità? Tanto più che il PSI aveva in sostanza scelto la strada della socialdemocrazia e dopo un periodo di incertezza, era passato dall’unità di azione con i comunisti a…- diciamo scherzosamente – a una sorta di unità di azione con la Democrazia cristiana, in una conversione verso il centro? E poi Craxi che pone il problema della governabilità. Ma la governabilità era mai stato un problema della cultura di matrice marxista?

 

Certo i comunisti il problema lo avevano risolto alla radice: avevano governato e stavano governando in molti paesi, anche nel pieno dell’Europa, con il partito depositario del potere reale, per cui il problema della governabilità non si poneva proprio, nel quadro e nell’ambito del dibattito sulle strutture costituzionali. Si tratta, infatti, di un problema delle democrazie di matrice liberale, che concepiscono uno stato fondato sulla divisione dei poteri, un parlamento elettivo che risolve il problema della rappresentatività e che non governa, ma deve convivere con un governo nel quale ha fiducia, ma che non è l’esecutore di sue deliberazioni ed è in vece titolare di un potere proprio. Il Parlamento fa le leggi e il terzo potere sta attento a che esse vengano rispettate (qualche magistrato forse pensa che si voglia condannarlo a fare processi ai ladri di galline).

 

Sul piano istituzionale la democrazia liberale affronta il problema della salvaguardia delle libertà e dei diritti dividendo il potere in tre istituti: quello dei governanti, quello dei rappresentanti e quello dei controllori: un primo ministro con i suoi aiutanti, (una sorta di re pro tempore), i deputati (con, eventualmente, i senatori) e i magistrati. Un meccanismo articolato e interconnesso, nel quale i magistrati certo non hanno origine popolare, ma non possono far niente se non ricevono una spinta dall’esterno: l’azione, il cui esercizio non può essere, comunque, commesso a uno di loro, se no il sistema crolla e si arriva al governo dei giudici… (Noto tra parentesi che avere due camere che fanno le stesse cose non si capisce proprio a che cosa possa servire: 630 + 315= 945; 945 + un manciata di nominati del Presidente della Repubblica fa 950, 955…tanto vale metterli tutti in una Camera sola… e poi non sono troppi? Possibile che nella costituzione - che più bella al mondo non ce ne potrebbe essereun’altra - ci sia una cosa così arrangiata?)…

 

E come si fa allora a governare in queste condizioni? E a governare in tempi difficilissimi, tempi di grandi trasformazioni, di incontro/scontro tra civiltà molto diverse, ma anche con tratti comuni e tante tensioni che stanno scritte nel fondo del cuore dell’uomo, come l’anelito… alla libertà, che è il motore universale della storia, di ogni storia… Il problema della governabilità, voglio dire, ci stiamo sbattendo contro da trenta o quarant’anni senza esito, senza cavare un ragno dal buco, l’ultima volta il quattro dicembre scorso. Ma dietro ci sono gli irrisolti problemi che essa pone. Non è che ci si sveglia la mattina e si parte col piede sinistro…

 

Dicevamo del PCI? E la DC? Ovvero quel che ne è rimasto, gli eredi di Aldo Moro, che del PCI nel 1976 aveva ottenuto l’astensione sul governo Andreotti – con il compromesso storico che diventa solidarietà nazionale… e si badi bene che il nuovo governo dopo elezioni anticipate lo presiede non Moro, ma Andreotti, e lo votano tutti meno tre outsider: il MSI, il partito radicale e democrazia proletaria… Cioè, più che altro, un gran pasticcio nazionale, di cui il PD oggi vuol forse candidarsi ad esser erede?

 

La storia della convivenza tra la DC e il PCI è lunga e complessa, ma non sembra abbia mai prodotto un dibattito nazionale profondo e ampio, perché la storia e il momento culturale sono sempre snobbati dalla politica, che mette ai margini gli… scocciatori che disturbano la gestione del quotidiano, ma alla lunga vedono prevalere le loro ragioni. Perchè la politique politicienne a un certo punto si trova disarmata, sconfitta dalla storia, dalla necessità di ricostruire ed approfondire.

 

La governabilità è una brutta bestia, è questione che non si affronta vivendo alla giornata. Matteo Renzi è oggi l’ennesima vittima sacrificale di un dibattito sul “che fare?” (scansato dal PCI all’atto della caduta del Muro di Berlino) e ne sconta le conseguenze, andando ad arricchire la nutrita schiera di quanti, visto l’andamento zoppicante della nostra Repubblica, hanno cercato la strada delle riforme, senza però capire che esse presupponevano un dibattito storico/politico nazionale.

 

Renzi si ritrova con Aldo Moro, con Craxi, con Berlusconi, con le Commissioni bilaterali di Bozzi, della Jotti, di D’Alema…tutti sconfitti sullo stesso problema (e lui e D’Alema, invece di perdere tempo a litigare, farebbero bene a mettersi seduti a un tavolo per trovare una via d’uscita alla situazione italiana e a una possibile sinistra italiana). Ed europea; perchè le socialdemocrazie tedesca, francese, spagnola… non stanno meno nelle peste di quella italiana, partendo poi dalla premessa che le sinistre nazionali in Europa non riescono nemmeno a capire che a furia di scaramucce in Francia, in Germania o in Italia o in Spagna non si va da nessuna parte e si creano solo spazi per Marine Le Pen, per l’Alternativa per la Germania e per Pegida (Patriotische Europäer Genen Islamisierung Des Abendlandes) nuovi partiti destrorsi tedeschi, per Orbàn, Hofer, Grillo, Salvini, Iglesias o per la Brexit…e soprattutto per Putin.

 

Il PD per farla breve, che forse aspira a presentarsi come partito del futuro (e potrebbe anche averne titolo, basti pensare al fatto che in giro non c’è quasi niente altro…) rischia invece di essere il partito che si presenta come residuo di un passato morto (anche se purtroppo ancora non sepolto), come ultima espressione di quel dialogo con i cattolici, che Togliatti aveva concepito per dar vita a una democrazia nazionale italiana se non proprio comunista (anzi quasi per niente comunista), almeno popolare…

 

 


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