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18/11/24 ore

Socialismo liberale


  • Silvio Pergameno

Il discorso che dobbiamo fare non è lungo, ma è complesso, non semplice e deve soprattutto essere calato in un contesto nel quale non può essere facilmente accolto, anche se proprio il momento politico attuale e la mancanza di orizzonti che lo contraddistingue rendono indispensabile accingersi all’opera.

 

In particolare è la bizzarra condizione del Partito democratico quella che maggiormente colpisce: l’unico attore presente sulla scena che possa vantare un legame con il passato, cioè un tratto di continuità, quell’ancoraggio del quale proprio i novatori- coloro che comunque hanno la pretesa di presentarsi come tali - hanno il maggior bisogno. E tutti ne abbiamo bisogno, perché senza un riferimento al passato non riusciamo a capirci e rischiamo di esporci a rischi rilevanti. Vediamo.

 

La storia delle volte è curiosa, ma il caso ha voluto che proprio all’esatta scadenza di duecento anni (1793 – 1993) un fatto rivoluzionario sia maturato in Europa: il Terrore in Francia allora e Manipulite in Italia adesso. Allora in piazza della Concordia fu tagliata la testa a un monarca nel paese che dell’Europa continentale rappresentava la punta avanzata (l’Inghilterra è una storia diversa) e fu tagliata la testa a un sistema politico, la monarchia assoluta, che della storia moderna era stato il protagonista e che non è riuscito più a riattaccarsela la suo posto: la monarchia della Restaurazionee quella orleanista sono stati fatti transitori. La nuova formula politica è diventata lo stato nazionale dei partiti, sostanzialmente nella forma repubblicana, con le sette monarchie rimaste (capi di stato ereditari rimasti solo in sette paesi – Benelux, scandinavi e Spagna) nelle quali benvoluti sovrani vanno a fare la spesa al supermercato. Cioè la nuova formula politica è diventata la Repubblica nazionale, fondata sulla centralità dei parlamenti, fatti dai partiti. Alla scadenza del secondo millennio è stata la volta dell’Italia a dare un segnale: in una Repubblica nazionale dei partiti, proprio a questi nuovi sovrani è stata tagliata la testa, anche se non con la ghigliottina, lasciando un vuoto non facile da colmare.

 

L’Italia del novecento non ha la storia e il peso della Francia del settecento; ma evidentemente è il paese nel quale la configurazione politica è più sensibile, perché già circa cent’anni fa ci abbiamo provato, ampiamente seguiti in giro per l’Europa e in particolare in paesi grossi come la Germania (il più grosso di tutti nell’Europa continentale) e la Spagna, con le tragiche conseguenze che sappiamo e con una Francia – sicuramente il paese più sensibile – che la stessa crisi la ha vissuta in pieno, durante la seconda guerra mondiale non solo con la triste vicenda della Repubblica di Vichy, ma con un pensiero politico antidemocratico molto articolato.

 

Il trentennio 1914 – 1945 è il tempo dell’esplosione – nell’Europa continentale - della crisi dei partiti come cardine dello stato democratico, e il settantennio che ne è seguito ha tutta l’aria di una Restaurazione poco convincente, soprattutto per il fatto che le sovranità nazionali, che già non erano state in grado di garantire la libertà e le libertà, restaurate nel secondo dopoguerra non garantiscono più i compiti dello stato e nemmeno la democrazia, di fronte alla globalizzazione, al sorgere delle potenze continentali, ai nuovi strumenti di comunicazione, all’evoluzione del capitalismo (di fronte alla qualesi vede che in Europa l’unica istituzione che riesce a fare qualcosa è la Banca Centrale Europea). Una prova macroscopica? Le lamentele contro gli Stati Uniti per quello che fanno o non fanno sullo scenario mondiale; le più recenti per la tiepidezza del loro intervento nella crisi mediorientale in atto; e sempre senza chiedersi cosa facciamo noi europei, cinquecento milioni di persone, con un reddito complessivo lordo su per giù pari a quello degli Stati Uniti.

 

In Italia intanto ci troviamo di fronte a un panorama di forze politiche per la maggior parte inconcludenti. Dopo Manipulite è venuto Berlusconi, che non mi sono mai sentito di criminalizzare e che ha fatto quel che ha potuto (non molto), poi è stata la volta del Presidente Napolitano che è riuscito a salvare il salvabile con il tecnocrate Monti (che ha tappato alcuni buchi) e con la svolta verso il Partito democratico, che sta facendo molto di più, ma le cui insufficienze sono palesi oltre a essere handicappato da una posizione della minoranza veramente inspiegabile, anche perchè Massimo D’Alema quando è stato Presidente del Consiglio ha saputo assumersi responsabilità veramente di rilievo. E al di là del Partito democratico c’è il vuoto assoluto di una destra priva della percezione della realtà; di un’estrema sinistra per la quale, sia pure per altri motivi, il giudizio è analogo con la presenza poi di Lega e Cinque stelle che esprimono soltanto la gravità del malessere della popolazione, ma in termini talmente epidermici, che da quelle parti c’è da aspettarsi di tutto.

 

E c’è poi il crescente fenomeno dell’astensione, che ormai - diventa chiaro - colpisce anche il Partito democratico come partito, quando consiglia di astenersi in una consultazione referendaria, che coinvolge questioni di principio. Ma l’astensionismo, dell’elettore o di un partito, non è una soluzione, ma una rinuncia malinconica.

 

Post scriptum

Queste considerazioni mi sono venute in mente leggendo giorni fa il lungo intervento di Ezio Mauro su Repubblica (“Come innaffiare la rosa appassita del riformismo”). L’autore indica decisamente per un’ipotesi riformista il ruolo dei diritti civili e l’esempio della socialdemocrazia tedesca con l’economia sociale di mercato, secondo il programma del congresso di Bad Godesberg del 1959. Non è certo un’ipotesi da rifiutare.

 

Però Ezio Mauro non ricorda alcuni passaggi fondamentali: il primo è che a Bad Godesberg la socialdemocrazia tedesca compì un esame di coscienza di fondo, rigettando apertamente il marxismo, il comunismo, la lotta armata come strumento per fare politica e la politica delle nazionalizzazioni sul piano economico, attestandosi su una visione della vita ispirata a un profondo umanesimo e alle tradizioni del pensiero cristiano e accettando in politica economica l’economia sociale di mercato.

 

Non si è trattato quindi di un programma di un normale congresso di partito, ma di una svolta rilevante, ma meditata nella quale all’economia sociale di mercato veniva data una base che assicurava una pace interna, un ruolo del sindacato che ne assicurava la funzione nel rapporto tra capitale e lavoro (non più nemici contrapposti in una lotta storica, ma turori di interessi da confrontare e da mediare) e una possibilità di parlare a tutti i ceti sociali.

 

L’economia sociale di mercato poi non è un’invenzione dei socialdemocratici, ma appartiene alla cultura liberale, cui appartevevano Wilhelm Roepke nel mondo di lingua tedesca e Luigi Einaudi in Italia, che in economia non negavano affatto l’intervento dello stato, ma non nella veste di nazionalizzatore, sibbene proprio a tutela della libera iniziativa e della concorrenza, che sono le condizioni della fecondità del mercato. Quel mercato che, lasciato a se stesso, tende alle concentrazioni monopolistiche e al liberismo selvaggio. Un liberalismo moderno, cioè. E l’imprinting liberale va rintracciato anche nella centralità che hanno assunto i diritti civili a partire dal 1968 e che oggi dispiegano un ruolo di fondo nell’evoluzione sociale in occidente e più ancora nei paesi emergenti, come nell’ambito delle società musulmane dove preminente è la questione femminile.

 

Non dimentichiamo Piero Gobetti e i fratelli Rosselli e tutto il liberalsocialismo…e auguriamoci che quest’anno si sappia approfittare di due referendum (di cui uno costituzionale) e elezioni amministrative anche proprio nelle tre maggiori città italiane (una a nord, una al centro e una al sud) per avviare un dibattito approfondito sulla democrazia in Europa.

 

 


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