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18/11/24 ore

Il rischio di una “democrazia illiberale”



di Felice Mill Colorni

 

Trovo abbastanza stupefacente il dibattito pubblico sulle riforme istituzionali del governo Renzi. Sembra che vent’anni di regressione civile generalizzata abbiano fatto tabula rasa di quel poco di cultura civica diffusa che si era faticosamente andata formando in qualche decennio di (magari precaria) appartenenza dell’Italia al novero delle democrazie costituzionali europee.

 

Sembra essersi completamente persa, fra le altre cose, la nozione della differenza che passa fra la vita quotidiana di una democrazia costituzionale da una parte, e la definizione delle regole del gioco e delle garanzie delle libertà costituzionali dall’altra. Chi vince le elezioni politiche deve sì poter governare, formare un governo, decidere l’indirizzo politico, approvare leggi ordinarie e bilanci. (Deve anche poter essere corretto, e se necessario cacciato, se le sue scelte si rivelano disastrose per il paese o se commette stupidaggini giudicate inescusabili. Di qui, nelle democrazie liberali, il divieto di vincoli di mandato per i parlamentari: che se ne possa fare pessimo uso dipende dalla qualità – in Italia mediamente infima – del ceto politico, non dalla razionalità della norma. L’alternativa è eleggere non parlamentari ma burattini: tanto varrebbe attribuire un voto ponderato ai soli capipartito, come arrivò spudoratamente a proporre Berlusconi).

 

Chi vince le elezioni in una democrazia costituzionale non deve invece poter cambiare come desidera, in solitudine o quasi, le regole del gioco, le garanzie delle libertà costituzionali, né poter eleggere in solitudine o quasi gli organi di garanzia. Questo è l’ABC di qualunque liberalismo, da Montesquieu al “Federalist”, da Tocqueville a Mill, ecc. ecc. E non c’è referendum che tenga, perché il referendum garantisce solo la maggioranza elettorale dalla possibilità di una sopravvenuta discrepanza di vedute con l’orientamento della maggioranza parlamentare. Ma le garanzie costituzionali servono a tutelare le minoranze, non le maggioranze. Per questo quasi tutte le costituzioni dei paesi occidentali richiedono procedure di modifica enormemente più onerose.

 

C’è un ovvio rapporto fra la rigidità di una Costituzione e la legge elettorale. Se, ad esempio, la Costituzione stabilisce un quorum elevato per la propria modifica o per l’elezione degli organi garanti, ma non fissa al contempo i principi generali su cui deve basarsi la legge elettorale per l’elezione di un Parlamento che possa esercitare poteri costituenti, è evidente che il grado di rigidità della Costituzione dipenderà interamente non dalla Costituzione, ma dalla legge ordinaria che stabilisce le norme per l’elezione del Parlamento. (All’epoca della Costituente il problema neppure si pose, perché quasi tutti davano per scontato che il Parlamento sarebbe sempre stato eletto con sistemi più o meno rigidamente proporzionali – per inciso, tutto questo non significa che, per non compromettere il sistema delle garanzie, si debba necessariamente eleggere il Parlamento con la proporzionale, qualunque cosa se ne pensi: ci sono anche, e sono state avanzate, numerose proposte e soluzioni alternative, complesse ma altrettanto sicure ed efficienti).

 

Sembra incredibile, ma settant’anni di esperienza repubblicana non sembrano avere fatto capire questo elementare principio alla classe politica, agli operatori dei media – posto che la maggioranza dei secondi abbia qualche margine di autonomia dalla prima – e, di conseguenza, alla società civile. Quest’ultima, anche nelle sue componenti relativamente più attente, sembra quasi incapace di reazione, inchiodata alla ripetizione degli slogan – o dei cinguettii da 140 caratteri – provenienti da una classe politica ridotta a pollaio berciante, e rilanciati dai media. Sembrano solo ormai contare, perfino nella delicatissima materia delle riforme costituzionali, la simpatia o l’antipatia nei confronti dei principali caratteristi del circo politico-mediatico, il packaging pubblicitario, una fiducia o sfiducia meramente personali, o una sintonia antropologica dai tratti tribali. E sembra contare, più che la sopravvivenza della democrazia liberale, la sorte di brevissimo termine degli schieramenti politici contingenti. Così si discute delle possibili conseguenze illiberali, autoritarie, o in prospettiva futura totalitarie, delle riforme in discussione, solo in relazione all’uso che a breve ne potrebbero fare gli attuali protagonisti del circo. Come se fossero eterni. Come se le riforme costituzionali si facessero “per loro”...

 

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