La rentrée di Matteo Renzi al meeting di Rimini ha dato la stura a svariate ipotesi sui prossimi scenari politici. Vi è chi nella raffica di nuove promesse del premier (abbassamento delle tasse, eliminazione dell’IMU e quant’altro) intravede l’inizio di una nuova fase: di fronte alle difficoltà generate dalla minoranza di sinistra nel PD, Renzi sarebbe tentato di mettere i suoi avversari con le spalle al muro non escludendo di giungere a elezioni anticipate.
È il cosiddetto “piano B” di cui parla Geremicca su «La Stampa» e che già da qualche tempo affiora nei retroscena proposti dai notisti politici. A favore di una scelta tattica di questo tipo milita la situazione nella quale il PD è venuto a trovarsi a dieci mesi dalle elezioni amministrative delle grandi aree urbane, dove il rischio di una sua eventuale sconfitta aumenta di giorno in giorno. Meglio battersi in prima persona, cercando di capitalizzare quanto più possibile la sua esperienza di governo e, al contempo, connotare politicamente una consultazione che altrimenti concederebbe troppi spazi di manovra alle opposizioni del M5s e della Lega.
Il ragionamento potrebbe avere una sua logica, anche se deve fare i conti con due obiezioni di non scarso rilievo. Innanzi tutto l’azione del governo Renzi per quanto costantemente amplificata dal battage propagandistico, non ha da presentare sul tavolo molti risultati effettivi. Gran parte delle “riforme” sono lontane dal vedersi compiutamente realizzate e anche quelle che hanno formalmente concluso l’iter parlamentare assomigliano agli scenari di cartapesta di Cinecittà, dal momento che non hanno inciso sugli snodi reali dei problemi che dovevano affrontare.
La riforma della Pubblica Amministrazione prima che possa registrare degli esiti concreti – se mai ci saranno, visto che non è affatto precisato come valorizzare il merito di dirigenti e dipendenti – è finora solo una dichiarazione di intenti; quella della scuola si è preoccupata solo della gestione del personale (per di più generando più caos che altro), senza intervenire sugli scopi e sui mezzi atti a realizzare una formazione idonea ai tempi che viviamo; il jobs act non ha coinciso con quella liberalizzazione del rapporto di lavoro, che si attendevano tanto i lavoratori in cerca di impiego quanto le imprese.
La seconda obiezione riguarda più strettamente gli equilibri politici. Indubbiamente l’ultimo anno ha visto aumentare l’erosione di consenso attorno al premier, che viene comunque associato al PD nel suo insieme: una partito contraddistinto da contese interne che giungono al limite estremo su entrambi i fronti contrapposti. Da un lato con quella che potrebbe dirsi la “slealtà” dei gruppi minoritari e, dall’altro, con gli atteggiamenti di arroganza talora assunti dal gruppo dirigente. In queste condizioni non si conduce una campagna elettorale. Diverso sarebbe il discorso se Matteo Renzi disponesse già del “partito della nazione”, ma perché ciò avvenga occorre altro tempo. Inoltre, la scelta elettorale non è così appetibile da parte delle opposizioni parlamentari: per quanto i pentastellati si dicano pronti a soppiantare i “politicanti del palazzo”, non si registra chissà quale propensione a impegnarsi già nella prossima primavera; il che vale – a maggior ragione – per il centro-destra.
A dispetto del “cinetico” segretario del PD, le spinte della politica e – ancor più – dell’economia paiono indirizzarsi piuttosto verso atteggiamenti cauti, poco disposti a correre l’alea del caso. I segnali di ripresa stentano a manifestarsi, anche perché non si agisce in modo incisivo sull’unico versante che la determinerebbe e cioè la domanda interna. Per farlo occorrono speranza, sicurezza e slancio: tre cose che le politiche odierne non hanno certo contribuito a rafforzare nelle persone.
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