La pretesa sarebbe quella di fare un bilancio della stagione dei talk show televisivi appena conclusasi, stabilire "chi vince e chi perde", ma nel suo intento il Corriere della Sera finisce, come sempre, per non cogliere il reale punto della questione.
Il giornale di Via Solferino mette in piedi una galleria fotografica, in cui dominano i volti dei vari Floris, Giannini, Santoro, Porro, Paragone, e con una vena ironica - tipica di chi pretende si saperla lunga - passa in rassegna i risultati ottenuti dai principali salotti televisivi. Così si sottolinea come Ballarò abbia dimezzato i propri ascolti, e si contesta a Massimo Giannini di essere "bravissimo", ma a scrivere, perché "come conduttore deve accelerare i tempi".
Si mette in risalto anche la sconfitta del predecessore di Giannini, cioè Giovanni Floris con il suo DiMartedì e, coraggiosamente, si nota addirittura che la somma degli share dei due programmi "non raggiunge il risultato del solo Ballarò". Si ironizza sul "primo attore" Michele Santoro, che ha deciso di chiudere il teatro di Servizio Pubblico, avvisando che se "fossimo nella concorrenza cercheremmo però di assicurarci gli editoriali di Marco Travaglio".
Il copione prosegue con Virus di Nicola Porro, il successo del populista Paolo Del Debbio, l'ascesa di Corrado Formigli, la Gabbia di Gianluigi Paragone (sul quale, piuttosto che mettere in risalto la sua insopportabile natura di conduttore-comiziante, si commenta - nientepopodimeno - che "le parole si urtano nello studio di Paragone come galline in uscita di un pollaio"), e si conclude con l'unica "certezza" che, secondo il Corriere, è possibile trarre da questo quadro: "La durata dei programmi di prima serata a sfondo politico fa impallidire gran parte della cinematografia iraniana, sfiorando le quattro ore, andando alla deriva nel grande lago della pazienza di chi guarda, albeggiando in diverse sfumature di noia".
Mai sfiora la mente dell'astuto editorialista del Corriere l'idea di accennare, anche solo per sbaglio, al fatto che da decenni - e in misura mai evidente come oggi - l'informazione televisiva sembra essere prodotta a uso e consumo del cosiddetto regime, grazie all'opera della solita compagnia di giro composta da politici, giornalisti e sedicenti opinionisti, che si alterna, dalla mattina alla sera, da un canale all'altro, nella grande recita collettiva.
Mai passa per la mente del Corsera citare, in questo tentativo di valutazione dei risultati ottenuti dai talk show, il recedente sondaggio "The Ignorance Index", condotto dall'istituto inglese Ipsos Mori in 14 paesi, dal quale risulta che noi italiani siamo tra i popoli più ignoranti o, meglio, disinformati sull'attualità del nostro stesso Paese: crediamo che gli immigrati costituiscano il 30% della nostra popolazione (quando sono appena il 7%), che i musulmani siano il 20% (quando sono solo il 4%), che i disoccupati siano il 49% (piuttosto che il 12%), o che i cittadini over-65 siano il 48% (e non il 12%).
Le letture deterministiche, che individuano una semplice relazione tra gli input provenienti dai media (in questo caso la televisione) e l'opinione pubblica, lasciano sempre il tempo che trovano. Ma sarebbe stupido negare che, in una società culturalmente arretrata come quella italiana, che si "ciba" dal punto di vista informativo in grandissima parte ancora attraverso il mezzo televisivo, tali risultati siano dovuti anche alla sconfortante programmazione offertaci dagli odierni talk show. Mai come oggi, anzi, la distanza tra la realtà percepita e la realtà sostanziale sembra dominare le dinamiche dei nostrani salotti televisivi. Il problema reale insomma, caro Corriere, più che noia si chiama disinformazione sistematica.
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