La sentenza della Corte costituzionale n. numero 70 di quest’anno – che ha dichiarato incostituzionale una norma della legge Fornero sulla rivalutazione delle pensioni - ha fatto e sta facendo discutere, e ce n’è ben ragione, anche se si sono verificati casi singolari, come quello dei tanti parlamentari che nel 2011 votarono la legge "famigerata" e oggi sono in prima fila nel protestare contro di essa, dimostrando di voler percorrere assai più la strada della ricerca del facile consenso, che quella della fondazione di una destra degna di questo nome, che su un momento centrale della riforma dello stato sociale (perché questo è il discorso in campo) dovrebbe avere molto da dire.
La norma in questione detta – per gravi ragioni attinenti alla finanza pubblica – disposizioni iugulatorie in materia di adeguamento delle pensioni al costo della vita, in quanto stabilisce per gli anni 2012 e 2013, un aumento delle sole pensioni il cui importo non superasse di tre volte la pensione minima dell’INPS (1217 euro netti al mese). Per i titolari di pensioni a partire dall’importo di euro 1218 nessun adeguamento è previsto.
Il rapporto fra spesa sociale e pareggio del bilancio dello stato, infatti, è uno snodo attorno al quale la spesa pensionistica ha un’incidenza molto elevata e gli interessi in campo – in particolare quelli dei ceti meno abbienti – sono cospicui. La pensione è un istituto destinato per sua natura a durare nel tempo e quindi a essere esposto a tutte le vicende che influiscono sul valore della moneta.
Facciamo un’ipotesi ai limiti dell’assurdo. Poniamo infatti che per un lungo periodo di tempo il valore della moneta resti assolutamente stabile: le pensioni non perderebbero valore (da compensare con adeguamenti): in altri termini il pensionato è interessato alla stabilità monetaria e alla crescita economica, (nella quale si possono poi trovare i mezzi per migliorare i trattamenti, in particolare i più modesti.
Comunque sia, la questione dell’andamento del bilancio pubblico è di vitale importanza per il sistema pensionistico, mentre poi la costituzione detta disposizioni tendenti ad assicurare la correttezza dei conti.
Ma veniamo, dopo queste – pur necessarie - considerazioni preliminari alla sentenza dei giudici delle leggi. Alla Corte costituzionale erano pervenuti tre ricorsi con i quali di chiedeva che fosse dichiarata incostituzionale la norma della legge Fornero della quale abbiamo testè esposto il contenuto essenziale.
E la Corte costituzionale ha accolto i ricorsi, cancellando la disposizione impugnata. E l’importante è vedere le motivazioni, che hanno confermato un orientamento seguito ormai da almeno trentacinque anni. In discussione, nei casi portati alla Consulta nella fattispecie, sono venuti l’art. 38, comma 2° della costituzione (che stabilisce per i lavoratori il diritto alla previsione ed assicurazione di mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, in validità e vecchiaia, disoccupazione involontaria) e l’art.36, comma 1° (che stabilisce che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa).
Dalla Corte costituzionale la disposizione dell’art. 38 è considerata in stretta connessione con il 36 e sostenuta dal principio di effettività, anche perché collegata con l’art. 2 della Costituzione (i mezzi sono adeguati, infatti, se in concreto raggiungono lo scopo – si veda la sentenza n. 497 del 1988). Dalla connessione poi il giudice delle leggi ha ricavato i principi che la pensione (derivante da attività lavorativa) rappresenta una retribuzione differita e che, dato che la pensione poi dura nel tempo, la sufficienza e l’adeguatezza del trattamento nel tempo debbono essere assicurate, in relazione alle variazioni del costo della vita.
A questo punto però occorre richiamare un altro ordine di considerazioni. Le norme costituzionali non hanno tutte la stessa portata ed efficacia; alcune regolano direttamente le situazioni considerate, creando da sole diritti, doveri, poteri …, altre invece (norme programmatiche) perché abbiano efficacia concreta necessitano dell’attività del legislatore e stabiliscono soltanto dei principi che il legislatore deve rispettare, è il caso di quelle che interessano in questa sede.
Al riguardo si osserva che la Corte costituzionale ha sempre riconosciuto la discrezionalità del legislatore nel dettare la disciplina pensionistica, anche per quanto riguarda l’esercizio del potere, di cui esso dispone, di bilanciare le varie esigenze della politica economica e finanziaria, in particolare din rapporto alla situazione del bilancio dello stato. Ne è derivata nel corso del tempo una situazione di estrema complessità, all’interno della quale è soltanto con estrema difficoltà che si può individuare qualche filo conduttore nella disciplina dell’adeguamento delle pensioni, al punto che risulta sostanzialmente impossibile che si possa parlare di certezza del diritto.
E non deve quindi destare meraviglia che si sia potuto leggere nei resoconti della stampa che la sentenza costituzionale della quale ci stiamo occupando sia passata – stante il risultato di parità numerica tra i giudici favorevoli alla soluzione adottata e quelli contrari – soltanto per la prevalenza del voto del Presidente. Un risultato che dovrebbe comportare approfondite riflessioni per le conseguenze che le decisioni dei giudici costituzionali possono determinare a carico dell’intera collettività nazionale.
La giurisprudenza costituzionale è, comunque, venuta nel tempo elaborando altri principi nella materia del cosiddetto "meccanismo perequativo" delle pensioni, cioè dell’adeguamento nel tempo delle pensioni in relazione alle variazioni del costo della vita, ma anche di un certa correlazione fra le variazioni nel tempo del trattamento del personale in servizio e quello cessato dal servizio (e parliamo di servizio e non di lavoro, perché questo aspetto ha riguardato più i dipendenti pubblici che quelli privati).
Comunque, anche per i dipendenti pubblici non è mai esistita alcuna legge che abbia stabilito che, in occasione di aumenti al personale in servizio, si riliquidavano automaticamente anche le pensioni; ma era una consuetudine che con apposita legge si provvedesse al riguardo, fino a quando, circa mezzo secolo fa, si iniziò a stabilire un meccanismo di adeguamento automatico in relazione alle variazioni del costo della vita.
E la Corte costituzionale, come si è detto, in relazione alle disposizioni di legge via via emanate, ha posto i principi di ragionevolezza delle disposizioni, di necessità che siano evitate discriminazioni irragionevoli e non adeguatamente motivate, di proporzionalità degli adeguamenti tra le varie fasce di pensioni, di violazioni del principio di eguaglianza, e, con particolare riferimento a provvedimenti di sospensione del trattamento perequativo, di non definitività; e infine di esigenza di motivazione adeguata.
E proprio quest’ultimo parametro (con riferimento alle invocate esigenze di bilancio) ha costituito una delle ragioni fondamentali per le quali è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma della legge Fornero che stabiliva un (modestissimo) aumento delle pensioni il cui importo non superasse il limite di 1217 euro netti mensili (pari a tre volte la pensione minima dell’INPS).
Altra ragione è fondata sul principio di proporzionalità, il fatto cioè che la norma impugnata concedeva un beneficio alla sola fascia di importo più basso delle pensioni e nulla alle altre; mentre invece precedenti disposizioni avevano stabilito una graduazione, nel senso che gli aumenti erano stati stabiliti in ammontare sempre minore con il crescere dell’importo delle pensioni, fino a che al di là di un certo limite non veniva riconosciuto alcun aumento (questo limite era comunque piuttosto basso, in quanto ragguagliato all’importo di una pensione di poco più di tremila euro mensili).
Ora è fondamentale rilevare che questo meccanismo di rivalutazione è stato a suo tempo sottoposto al vaglio della Consulta, che, sia pure con motivazioni non semplici, non ha comunque trovato motivi sufficienti per poterne stabilire l’illegittimità costituzionale. Ed è chiaro che si tratta di precedenti che forniscono all’esecutivo e la legislatore una traccia utile per il nuovi provvedimenti normativi che dovranno essere emanati.
Infine la Corte ha anche ravvisato perdite definitive di trattamento. Peraltro è molto importante osservare che la Corte costituzionale ha soltanto ha dichiarato incostituzionale la norma in contestazione in quanto prevede l’adeguamento esclusivamente per le pensioni dell’importo minimo di cui si è detto.
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Le conclusioni che si possono trarre da quanto innanzi esposto sul piano politico complessivo sono comunque di due ordini.
La prima è che, consentendo i principi maturati attraverso la lunga e difficile esperienza della Corte costituzionale ampie possibilità di interpretazione, i margini di discrezionalità normativa del Parlamento e del Governo sono molto estesi, senza dimenticare che molto dipenderà anche da piccoli accorgimenti nella graduazione degli interventi e dalla capacità di formulare adeguate motivazioni.
Sulla sentenza 70 partiti e stampa reagito, soprattutto in un primo momento, in maniera isterica e profondamente strumentale, perchè al Governo restava, comunque, un’ampia facoltà di intervento per limitare le conseguenze. Certo, l’estrema macchinosità della materia pensionistica, intessuta di una congerie inesplicabile di disposizioni, rende pressoché impossibile trovare criteri di orientamento, fili conduttori che rendano comprensibile, e quindi valutabile, qualsiasi disposizione nella materia.
Ma c’è un’altra conseguenza che induce a riflessioni molto preoccupanti. Essa nasce da un’osservazione apparentementer banale. Il Testo coordinato della legge Fornero pubblicato nella Gazzetta Ufficiale riporta per molti articoli anche le disposizioni richiamate nella legge: sono centottanta pagine di disposizioni per riduzioni di interventi pubblici nelle più disparate materie….: la legge infatti interveniva in un momento nel quale l’Italia era estremamente esposta al rischio che lo stato potesse finire in una situazione di insolvenza, con conseguenze inimmaginabili. E forse questo giustifica anche una certa fretta che ha caratterizzato l’adozione delle misure poste in essere.
Ma da queste ultime considerazioni si evidenzia, fin troppo bene, come lo stato sociale all’italiana tradisca principi fondamentali dello stato di diritto: la chiarezza e la semplicità delle disposizioni, premessa indispensabile della certezza del diritto, la cui assenza vanifica in gran parte la democrazia effettiva nella quale viviamo, perchò concentra poteri incalcolabili nelle burocrazie pubbliche. Per la materia che qui interessa è facile rendersi conto che soltanto la Ragioneria generale dello Stato e l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale sono in grado, forse, di valutare nel complesso la portata e le conseguenze dei provvedimenti che si adottano, sempre, naturalmente, a bocce ferme, che resta però un presupposto meramente teorico, quando sono in gioco cifre di ammontare molto elevato e quando viene in discussione la stessa solvibilità dello stato.
La mancanza di semplicità, chiarezza e certezza della legislazione determina poi incertezza nella tutela del diritto dei cittadini (e della stessa consapevolezza di quale sia questo diritto), mentre, su altro piano, predispone il terreno più fertile per il prosperare delle deviazioni e degli abusi.
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