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15/11/24 ore

Il 25 aprile, quei binari fissi sulla falsariga...


  • Silvio Pergameno

Dalla fine della guerra sono passati settanta anni e anche chi in quel giorno lontano è nato ha ormai raggiunto un’età ragguardevole. A chi scrive sembra perciò che il 25 aprile, che segna la fine della stagione più terribile della storia dell’umanità, debba essere ricordato soprattutto curando un approfondimento della storia politica di quel tempo, tentando cioè di farne risaltare i dati profondi.

 

È una storia di enorme interesse, perché ci porta da un lato a scoprire , o riscoprire, il problema di fondo rimasto irrisolto nei decenni che ormai ci dividono dagli eventi della prima metà del ventesimo secolo, e che sono al fondo della crisi che oggi colpisce l’Europa, mettendo a repentaglio quella civiltà che ci abbiamo messo venticinque secoli a costruire e dall’altro a rendere palesi le ragioni per le quali l’unica strada da imboccare per uscire dal tunnel è tanto ostica per i paesi dell’Unione.

 

Ciò che colpisce infatti nel panorama del nostro continente è il sostanziale ancoraggio dei paesi europei al loro passato, ciascuno con i propri caratteri specifici: la Gran Bretagna resta attaccata al sostanziale isolamento - non più tanto splendido - dal resto dell’Europa, la Francia continua a coltivare la grandeur nel fondo dell’anima, la Germania conta pur sempre sulla sua potenza un tempo militare e oggi economica, l’Italia è più che mai ingolfata nei suoi localismi e particolarismi e minata dall’incapacità di capire il problema della governabilità, la Russia persiste nell’amore per il ruolo eurasiatico di stampo zaristico e nella convinzione di essere la chioccia di tutti gli slavi, i balcani non si schiodano dall’etnicismo….

 

Le forze politiche in genere si muovono sulla traccia del passato, in quanto condizionate da un contesto tendenzialmente rimasto immutato nei suoi caratteri di fondo. Sono decenni ormai che le ricorrenze storico politiche più significative della nostra collettività nazionale scorrono su binari fissi e si svolgono su una falsariga già tracciata, senza capacità di reinterpretazione e così anche le stesse manifestazioni di dissenso assumono carattere ripetitivo, ricalcano stancamente modelli prevedibili.

 

Non deve quindi meravigliare quanto è successo sabato a Milano, dove un gruppo di estrema sinistra ha preso a insulti i rappresentanti della brigata ebraica presenti alla manifestazione di commemorazione della ricorrenza del 25 aprile (la brigata ebraica fu costituita dagli inglesi in Palestina nel 1944 e combattè contro i tedeschi in Emilia nel 1945, insieme con la divisione Friuli).

 

Il fatto può non destare meraviglia, essendo diventato ormai frequente, ma ciò non pertanto non può essere abbandonato all’indifferenza, non essendo privo di rilevanza nell’ambito della sinistra tutta, al cui interno serpeggia si può dire da sempre una tentazione antisemita.

 

Già infatti negli ultimi decenni dell’ottocento e ai tempi della seconda internazionale proprio nell’ambito delle correnti operaistiche e riformiste le manifestazioni antisemite non mancarono, nel quadro della cultura anticapitalistica e antimperialistica e anticolonizzatrice, mentre nei tempi attuali esse tendono a mascherarsi dietro l’antisionismo e la polemica contro lo stato di Israele, al quale vengono però affibbiate tutte le manifestazioni tradizionali di odio contro l’ebreo e le accuse di genocidio e di nazismo, unita alla minaccia di eliminazione.

 

Il politically correct tende in tal modo a dare una veste più decorosa all’antisemitismo, mentre peraltro gli atti di terrorismo di matrice antiebraica si moltiplicano e si sviluppa la tendenza a mascherare il fatto che le reazioni di Israele assumono carattere difensivo (tipo il muro a riparo dei confini) o di rappresaglia mirata a imprese terroristiche (come l’attacco militare contro Gaza dopo l’omicidio di tre ragazzi israeliani lo scorso anno), anche se queste considerazioni, ovviamente, non significano affatto una forma di condivisione di tutta la politica di Israele e dei limiti che la contraddistinguono.

 

Anche nella sinistra moderata, comunque, esiste quanto meno una reticenza ad affrontare esplicitamente il problema, forse per un residuo di quella remora a superare il principio del non avere nemici a sinistra, la cui persistenza sarebbe evidentemente destinata a subire un duro contraccolpo da un’aperta discussione sul problema.

 

 


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