La crisi di governabilità e di rappresentanza del sistema politico italiano può dirsi ormai una costante degli ultimi decenni. È manifesta almeno dalle legislature degli anni ’70 e non a caso proprio allora si cominciò a parlare della necessità di una “grande riforma” che doveva ammodernare le nostre istituzioni. Con il passare del tempo, non se ne è fatto nulla: si sono succedute le commissioni bicamerali in Parlamento, sono stati acquisiti i pareri dei cosiddetti “saggi”, ma alla prova dei fatti le riforme sono rimaste lettera morta.
Gli unici interventi hanno riguardato i cambiamenti del sistema di voto, ma come più volte è stato ripetuto iscrivere la riforma della politica sul solo terreno elettorale è un clamoroso abbaglio, perché non dà soluzioni vere al ridotto grado della rappresentanza politica né assicura capacità decisionale. Lo si è visto col sistema uninominale, corretto dalla quota proporzionale, del Mattarellum e con il premio di maggioranza alle liste bloccate delle coalizioni della legge, poi cassata dalla Consulta, che ha dato per due volte (2006 e 2013) la maggioranza della Camera al Pd e una (2008) al Pdl, senza con questo garantire un’effettiva governabilità.
Logica avrebbe voluto che si prendesse atto di ciò e si procedesse a un’inversione di rotta, mettendo al centro del dibattito la riforma della politica affrontando la questione delle forme istituzionali, scegliendo finalmente un modello che non contenesse le ambiguità e le ingessature del nostro ordinamento.
Non esiste in Europa un governo altrettanto amputato nelle sue prerogative come quello italiano, come pure un Capo dello Stato non eletto direttamente che disponga dei poteri concessi dalla carta all’inquilino del Quirinale. Questo era il nodo da sciogliere, attraverso una chiara scelta in favore del presidenzialismo o del premierato che rendesse il nostro Paese più simile alle altre democrazie europee, dove il Capo dello Stato o è eletto dal popolo e guida il governo, o è solo figura rappresentativa che non condiziona più di tanto l’attività del governo.
Quanto è successo in Italia, da Scalfaro in poi, ha dimostrato che un presidenzialismo di fatto, in assenza di legittimazione popolare, ha gravemente inficiato la solidità del grado di rappresentatività dei governi, da cui il succedersi di governi “tecnici” o del Presidente (Dini, Monti, Letta e Renzi).
Ora cosa accade con il cosiddetto Italicum e la riforma del Senato? Si interviene per eliminare quelli che sono giudicati gli “intoppi” dei sistemi elettorali fin qui adottati, senza tuttavia agire sui punti critici del sistema istituzionale. Il Porcellum non funzionava perché, dopo l’intervento dell’allora presidente Ciampi che impose la base regionale del premio di maggioranza al Senato, dà maggioranze diverse a Montecitorio e Palazzo Madama? Bene, non si elegga più il Senato e lo si trasformi nel dopolavoro di delegati regionali. Il premio di maggioranza alla coalizione comporta una ripartizione di seggi fra più partiti? Bene, si dia il premio a un solo partito. E se nessun partito, come è quasi scontato, non raggiunge però il 40% necessario, si dà una verniciata di legittimazione popolare introducendo il doppio turno fra i primi due partiti con più voti e poco importa se con questo può risultare esclusa la metà (se non di più) dei votanti.
Come si vede, le riforme di cui si sta discutendo sono all’insegna degli stratagemmi, delle astuzie, ma non hanno nulla a che vedere con l’affrontare i nodi della crisi della politica di cui si diceva all’inizio. Una volta approvato, l’Italicum non garantirà affatto maggiore rappresentatività e tanto meno riuscirà ad assicurare il governo del Paese, che com’è noto non dipende dall’ampiezza o dalla “lealtà” dei componenti la maggioranza di sostegno, bensì dalla determinazione di compiere le scelte e dalla capacità di trovare soluzioni ai problemi.
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