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16/11/24 ore

Le grossolane interpretazioni sulle elezioni cantonali in Francia


  • Silvio Pergameno

Le elezioni cantonali in Francia della scorsa domenica hanno interessato su per giù 1500 cantoni sugli oltre quattromila che ne rappresentano il totale. Sulla grande stampa si sono letti un sacco di discorsi, molto simili tra loro: ha vinto Sarkozy (poco meno del 30% dei voti) insieme con l’ Unione per un Movimento Popolare, coalizzata con l’Unione dei Democratici e Indipendenti (una coalizione di centro, quest’ultima molto complessa nelle sue componenti e con qualche aspirazione liberaleggiante, si fa per dire); il Fronte Nazionale di Marine Le Pen avanza, ma non raggiunge l’obbiettivo di essere il primo partito (ha ottenuto il 25% scarso dei voti); i socialisti migliorano un po’ le loro posizioni (con circa il 23% dei suffragi). L’astensione è stata forte (dal 55% delle elezioni cantonali del 2011 sono scesi al 49,7%).

 

Da questi dati, comunque discutibili, si sono volute trarre illazioni che discutibili lo sono ancora di più e che mostrano con chiarezza dove si vuole andare a parare. Esempi facili: il fatto che il Fronte Popolare non sia arrivato primo ne proverebbe un’ormai scontata perdita di slancio (cioè si è tirato un sospiro di sollievo); la vittoria di Sarkozy dimostrerebbe che l’alternativa alla sinistra non è Marine Le Pen (altro sospiro di sollievo); i socialisti sono stati penalizzati dalle divisioni interne alla sinistra, ad esempio i comunisti di Melanchon non hanno sostenuto il voto per il PS (leggasi: fa bene Renzi a combattere contro la sinistra del PD); Sarkozy ha vinto perché ha rivendicato una sua posizione: non filogovernativa ma ben distinta dal lepenismo (leggasi: Berlusocni non flirti con la Lega) e così via.

 

Tutti discorsi non persuasivi perché privi di un fondamento condivisibile: che cioè dai risultati di queste elezioni si possano trarre conseguenze di carattere generale sull’andamento delle forze politiche in Francia, premessa non dichiarata, ma comunque indiscutibile.

 

Ma a ben vedere questo modo di procedere nel ragionamento non è in alcun modo accettabile. Infatti i risultati possono essere stati condizionati dal modesto numero degli elettori rispetto a quelli di una consultazione nazionale; i cantoni dove si è votato presentano caratteristiche particolari, per esempio sono zone nelle quali i socialisti sono forti o deboli? e così gli altri partiti; come era la qualità dei candidati? Come è stata la propaganda elettorale delle singole forze politiche? Quali caratteri particolari presenta l’elettorato: sono vandeani o marsigliesi? quali problemi locali possono aver influito sull’orientamento dei votanti? E così via.

 

Sarebbe stato necessario dare prima una risposta a queste domande e soltanto dopo, e con la dovuta cautela, azzardare alcune considerazioni di carattere generale (un po’ lo ha fatto sul Corriere della Sera Jean Marie Colombani, già direttore di Le Monde), considerazioni che, comunque, avrebbero dovuto sostarsi su ben altri livelli: soprattutto il fatto che ci troviamo di fronte a una Francia priva di una politica all’altezza dei tempi e ripiegata su se stessa, una condizione che a destra si esprime nell’ossessione identitaria e nella connessa islamofobia e a sinistra nella crisi sempre più accentuata di un Partito Socialista, che non riesce a uscire dai vecchi schemi e finisce per restare privo di prospettive di fronte alle conseguenze della globalizzazione.

 

E non si dice – si badi bene - “privo di soluzioni”, ma di una linea politica che muova dalla constatazione dell’impotenza dei vecchi stati nazionali in questi tempi tanto diversi dal passato e dalla necessità di un primo passo in direzione decisamente “riformista”, almeno come la socialdemocrazia tedesca. Certo che Marine Le Pen avanza costantemente, ma non soltanto perché fa il pieno delle proteste…

 

 


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