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16/11/24 ore

Napolitano, la presidenza in tempi confusi


  • Silvio Pergameno

Nel momento del saluto a Giorgio Napolitano che lascia il Quirinale per Palazzo Giustiniani, vogliamo fermare l’attenzione sul tratto saliente della sua “significativa” Presidenza”, più che sulla figura del Presidente, un compito quest’ultimo che altri potrà meglio di chi scrive svolgere all’altezza della persona.

 

Giorgio Napolitano è stato Presidente nel tempo più confuso della storia della nostra Repubblica, quello nel quale la crisi dei partiti è arrivata al massimo, sulla scia della frantumazione della Democrazia Cristiana che del meccanismo complessivo era stata l’asse portante. Alcide De Gasperi, che aveva aderito nel primo dopoguerra al Partito Popolare di don Luigi Sturzo e del partito era stato anche segretario, muoveva dalla convinzione dell’assoluta necessità della presenza e del contributo del mondo cattolico alla democrazia italiana, mondo cattolico, si osserva, che in larghissima misura era di stampo diremmo “concordatario”, e non cattolico liberale. Su questo terreno era nata la DC, con la sua natura “conciliativa” e la sua volontà di tenersi legati i tre piccoli partiti “laici”, con la porta aperta al PSI e senza criminalizzare il PCI.

 

Le battaglie radicali degli anni settanta avevano minato queste basi, avviando la crisi del partitismo nazionale,già degradato dall’uso disinvolto del potere , dall’assenza di opposizione parlamentare e dall’ evoluzione del “dialogo con i cattolici” di togliattiana memoria in “compromesso storico” (al livello della gestione del potere); lo sfascio della DC e dei partiti ad essa aggregati diventava irreversibile, mentre poi entrava in crisi anche il PCI, dopo la caduta del muro di Berlino.

 

Ora, e questo è il punto essenziale, la crisi del partitismo ha avuto conseguenze molto gravi perché in Italia nel secondo dopoguerra era stata costruita una democrazia dei partiti, con poca attenzione alle istituzioni, nella sostanza ampiamente sfruttate “per fare politica”. Venuta meno la tenuta dei partiti, pertanto, siamo precipitati nella confusione sempre più accentuata, anche perché la funzione di supplenza della magistratura (caratterizzata da una concezione della funzione giudiziaria come contropotere politico e non come un istituto terziario di garanzia), a parte l’improprietà costituzionale che la minava sul piano delle istituzioni e la superficialità che la distorceva su quello politico, faceva di Mani Pulite il cerino che dava fuoco alla miccia, cui seguiva una crisi istituzionale perché il giusto contrasto alle pesanti manchevolezze di Forza Italia e ai tanti dubbi sul percorso di Berlusconi diventava una battaglia priva di esiti, mentre l’accanimento di Botteghe Oscure contro Bettino Craxi portava alla rapida dissoluzione di un PSI, comunque già compromesso esso pure dalla “gestione del potere”.

 

Siamo così passati, dalla crisi anche del PCI e dalle incertezze del percorso PDS-DS-Ulivo-PD, al fatale novembre del 2011, quando Napolitano convince un non certo entusiasta Berlusconi a dimettersi da Capo del governo. È stata questa la punta massima di un “interventismo presidenziale”, che ha caratterizzato la “Presidenza” Napolitano, che, nello sfascio del sistema dei partiti e negli ampi vuoti istituzionali, è così diventato l’unico punto di riferimento e di tenuta in un paese nel quale la sensibilità per i principi del liberalismo è sempre stata molto scarsa (e anzi combattuta), il solidarismo cattolico si è progressivamente sfaldato nel corporativismo spartitorio, l’ideologia proletaria marxistico – leninistica , già privata dello slancio internazionalista e costretta nel ruolo castrante degli stati nazionali, già consumata nella lotta a sangue dei comunisti contro ogni avanzamento riformistico/socialdemocratico , si concentrava e logorava nelle problematiche e nelle contorsioni di un’illusoria conquista del potere.

 

La crisi del febbraio 2013, di cui il livello parlamentare è solo l’espressione parlamentare, trova esaurienti chiarimenti nelle considerazioni che precedono, nelle quali si spiega anche il ricorso alle invocazioni a Napolitano perché accetti di nuovo di candidarsi alla Presidenza della Repubblica nell’aprile successivo. Viene così tolto terreno sotto i piedi ai movimenti populistici della protesta facile e rumorosa, ma anche al giustizialismo ammantato di iperboli costituzionalistiche e non meno alle velleità di rivincita del Cavaliere dimezzato, che, bon gré – mal gré, è costretto ad accodarsi a nuovi personaggi emergenti. E in Parlamento, anche la dissidenza a partire dalla sinistra PD e oltre, si rivela sempre più priva di riferimenti credibili. Napolitano ha così salvato “la tenuta” della Repubblica nel momento più difficile.

 

E allora è il momento di chiedersi se il Presidente sia rimasto nell’ambito della Costituzione o si sia avviato sulla strada di un’interpretazione “evolutiva” della legge fondamentale dello stato. Ad avviso di chi scrive, l’interpretazione “evolutiva” – a voler essere sinceri - era stata fatta prima, piano piano nel decorso dei decenni, perché la nostra costituzione non delinea affatto un sistema parlamentare “assemblearistico”, del quale, poi di fatto, non esistevano nemmeno le basi, in quanto le assemblee parlamentari erano state private di ogni vero potere proprio, istituzionale, e ridotte a “delegazioni” dei partiti; il “potere” cioè stava all’interno dei partiti, che, attraverso loro pretesi rappresentanti, lo esercitavano in nome delle istituzioni.

 

In buona sostanza, era già stata messa in atto la beffa più clamorosa ai fondamentali principi di cui all’art. 67 della Costituzione, cioè che i membri del parlamento rappresentano la Nazione, e solo in questo ambito gli elettori, ed esercitano le funzioni senza vincolo di mandato, che quindi il carattere di “rappresentanza” impersonato dal Parlamento nei confronti dei cittadini ha natura politica e viene autonomamente interpretato e gestito in piena libertà. Questo significa poi che i parlamentari non sono portavoce di nessuno e fanno “politica” e hanno poteri effettivi.

 

Principi “liberali” entrati nella Costituzione, ma ovviamente - e surrettiziamente – aggirati… Sigifica che i partiti non possono avanzare pretese nei confronti degli eletti. (Lo statuto del partito radicale prevede che gli eletti escono automaticamente dal partito). Discorso analogo per il Presidente della Repubblica, del quale si è voluto fare un “notaio”, una sorta di formale passacarte, che la Costituzione non delinea un alcun modo.

 

L’art. 87 ne fa il Capo dello Stato e gli attribuisce specifici poteri: autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo (e l’autorizzazione in diritto pubblico non è atto formale, ma provvedimento discrezionale, che comprende specifici poteri); il Presidente nomina, nei casi stabiliti dalla legge, i funzionari dello Stato; accredita, oltre a ricevere, i rappresentanti diplomatici; ha il “comando” delle Forze Armate (guarda un po’!); presiede il Consiglio superiore della Magistratura; può concedere la grazia e commutare le pene; può sciogliere le Camere semplicemente “sentendo” i loro Presidenti.

 

Diciamo la verità, altro che notaio! Napolitano, nel momento in cui la nave rischiava di affondare, ha rivendicato all’esercizio delle funzioni presidenziali tutti i poteri che la Costituzione gli riconosce e, prendendo atto delle conseguenze estreme in cui un lungo processo di deformazione aveva portato il paese, con la significativa compostezza essenziale alla carica, ha fatto il possibile per portare l’Italia fuori dall’emergenza. Ha svolto una funzione storica, che rende impossibile un ritorno a un triste passato.

 

 


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