Con il titolo "La mafietta antipolitica", Claudio Velardi è intervenuto sul «Foglio» di venerdì 12 dicembre per commentare il recente discorso del Presidente della Repubblica all’Accademia dei Lincei. Il Capo dello Stato, nell’occasione, ha avuto modo di criticare l’antipolitica dilagante, riservando un passaggio ai media italiani. Velardi lo riporta testualmente: "Una azione (quella dell’anti-politica) cui non si sono sottratti infiniti canali di comunicazione, a cominciare da giornali tradizionalmente paludati, opinion maker lanciati senza scrupoli a cavalcare l’onda, per impetuosa e fangosa che si stesse facendo…".
Espressioni molto severe e, forse, inusuali che hanno originato una polemica che meriterebbe di non essere trascurata come invece è accaduto, perché focalizzano un punto centrale della lunga transizione che sta vivendo il nostro paese. Ma andiamo con ordine.
Velardi evidenzia come le parole di Napolitano siano state del tutto omesse nei resoconti dati da grandi testate come «la Repubblica», «La Stampa» o «Il Sole 24 ore». A riportarle integralmente è stato invece «Il Fatto», anche se ciò è attribuito da Velardi alla sua “passione fetish” per l’inquilino del Quirinale. Non le ha citate ma ad esse ha replicato il «Corriere della Sera», con un articolo di Antonio Polito descritto da Velardi come un birdwatcher.
L’editorialista del «Corriere», ironizza Velardi, presenterebbe i giornalisti come semplici osservatori, fingendo di ignorare quanto un certo modo di informare abbia contribuito alla costruzione sistematica dell’antipolitica. E basta riandare con la memoria alla confezione concordata delle prime pagine negli anni di Mani pulite, per trovare più di un indizio dell’opera manipolatoria realizzata sotto l’egida di quello che Velardi definisce “impianto culturale del terzismomielista”, con riferimento a Paolo Mieli negli anni di Tangentopoli direttore del «Corriere». Velardi conclude rimproverando alla categoria dei giornalisti un atteggiamento omissivo e omertoso, che li porta a svicolare dalle proprie responsabilità nella creazione del clima denunciato nel discorso all’Accademia dei Lincei.
A questo punto, però, è giunta al presidente Napolitano una replica assai meno british di quella di Polito, per mano di un altro editorialista di punta del «Corriere»: Ernesto Galli della Loggia. Nel suo articolo di domenica 14 dicembre, scrive che la ragione di fondo per cui l’assetto politico italiano è sistematicamente insidiato dall’antipolitica, dal populismo e dal giustizialismo consiste nel fatto “che tutte e tre quelle patologie sono nel Dna stesso della Seconda Repubblica: costituiscono una sorta di suo peccato originale. Tra il 1992 e il 1994 - non bisogna mai dimenticarlo - la Seconda Repubblica è nata infatti fuori e contro la politica”.
Galli della Loggia cita due fatti che giudica all’origine di questa deviazione, di cui ancora risentiamo le conseguenze. Il primo risale al 2 settembre 1992 quando il deputato socialista Sergio Moroni, prima di suicidarsi a seguito di un avviso di garanzia inviatogli dalla procura milanese, inviò proprio a Napolitano allora presidente della Camera una lettera nella quale denunciava «un clima da pogrom nei confronti della classe politica», caratterizzato da «un processo sommario e violento». Sul contenuto di quella lettera, non si aprì alcun dibattito alla Camera e Napolitano si limitò a esprimere un generico cordoglio per la scomparsa di Moroni.
Il secondo fatto è il pronunciamento dei pm milanesi contro il decreto del ministro di Giustizia Conso, volto a depenalizzare il reato di finanziamento illecito ai partiti, avvenuto il 5 marzo 1993: “un fatto – scrive Galli della Loggia – probabilmente mai avvenuto prima in alcun regime costituzionale fondato sulla divisione dei poteri. I magistrati del pool di Mani Pulite si presentarono al gran completo davanti alle telecamere del telegiornale delle 20, incitando con parole di fuoco i cittadini alla protesta contro il decreto legge emanato da quello che a tutti gli effetti era il governo legale del Paese”.
Si chiede infine l’editorialista: “è possibile non riconoscere in questi episodi e in tanti altri che accaddero allora alcuni elementi caratterizzanti di quella che è stata poi la vicenda italiana? […]anche il populismo ha una storia lunga e molto varia: allo stesso modo, peraltro, dei suoi fratelli gemelli, il giustizialismo e l’antipolitica. La classe dirigente che si ritrova ad essere oggi alla testa della Seconda Repubblica non dovrebbe scordarselo. È proprio in quei terreni che oggi essa disdegna che affondano, infatti, le radici profonde della sua stessa legittimazione”.
Dal semplice confronto di queste posizioni, emerge come è ben difficile che nessuno dei protagonisti è nella condizione di tirarsi fuori e far la lezione agli altri. L’informazione – che, va ricordato, in Italia è espressione di settori finanziari ed economici – al pari della classe politica uscita indenne dallo tsunami giudiziario di Mani pulite hanno irresponsabilmente contribuito all’omicidio della politica, alimentando ribellismi e risentimenti al solo scopo di avere campo libero riducendo sempre più gli spazi di partecipazione democratica.
Che i vertici dello Stato mostrino dei ripensamenti, non può essere motivo di soddisfazione dal momento che ciò avviene con eccessivo ritardo e soprattutto senza che essi siano accompagnati da un reale processo di chiarimento. Dall’altro lato, opinionisti e intellettuali che giocano allo scarica barile non fanno che nascondere a se stessi il ruolo effettivamente giocato. Galli della Loggia riferisce che il decreto Conso fu ritirato, perché il presidente Scalfaro fu “impressionato dalla rivolta”, ma cosa sarebbe successo se non l’avesse fatto?
Qualche giornale avrebbe forse difeso le prerogative costituzionali? Politici deboli e ricattabili hanno ceduto e condisceso all’assalto, anche se ora piangono sul latte versato. Ma certo i giornalisti non sono stati soltanto osservatori, bensì strumenti di un assalto di cui hanno fatto le spese democrazia e libertà.
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