La morsa della crisi economica e le crescenti tensioni a livello internazionale (dall'Isis all'Ucraina) non lasciano spazio a tentennamenti, eppure l'Unione Europea non pare voler stringere i lunghi (fisiologici) tempi della politica, finendo con l'avvalorare le tesi euroscettiche sull'inefficienza e sulla lontananza delle proprie istituzioni.
Per vedere infatti finalmente nascere il nuovo esecutivo comunitario (28 membri) guidato da Jean-Claude Juncker, bisognerà attendere fino al 20 ottobre, quando l'Europarlamento darà la fiducia alla squadra di commissari annunciata dall'ex premier lussemburghese pochi giorni fa, inclusa la nomina ad Alto rappresentante per la politica estera dell'italiana Federica Mogherini.
Insomma, fino al primo novembre, scadenza naturale dell'attuale Commissione, la governance europea vivrà in una sorta di limbo, con un esecutivo nuovo che scalpita (senza però poter formalmente intervenire) e un esecutivo vecchio, ormai congedato, che avrà pochissima o nessuna credibilità per poter adottare le decisioni di rilievo che il normale corso degli eventi richiederebbe, in primis quelle relative alla delicata situazione del quadro internazionale, soggetto a mutamenti quasi quotidiani.
Il ruolo di responsabile della politica estera dell'Unione, quindi, tanto per fare un esempio, resterà fino a quella data nelle mani dell'ormai celebre (per la propria inconsistenza) Catherine Ashton, che con molta probabilità, in attesa della propria sostituzione, non farà altro che adottare un profilo ancor più basso, praticamente sotto terra (nella speranza, quasi cieca − renziana −, che a risollevare tale incarico sia proprio Mogherini, accompagnata ad oggi, tuttavia, da non pochi interrogativi circa la sua limitata competenza ed autorevolezza).
A gettare peraltro ulteriori dubbi sulla scarsa reattività e risolutezza dei vertici europei è stata, oltre all'ennesima esitazione nel varare il nuovo piano di sanzioni nei confronti della Russia, la decisione di Juncker di ridefinire l'intero assetto della Commissione europea, limitando in maniera considerevole i poteri dei 27 commissari. Il nuovo presidente ha infatti individuato sette progetti, corrispondenti ad altrettanti vicepresidenti (tra cui Mogherini), che coordineranno il lavoro dei commissari che di volta in volta saranno riconducibili ai progetti.
I veri protagonisti all'interno della Commissione saranno quindi i vicepresidenti, i quali non solo coordineranno il lavoro di più commissari, ma avranno anche un potere di veto sulle loro proposte, decidendo quale dossier iscrivere sull'agenda della Commissione. L'idea è quella di concentrare le funzioni politiche, e comunicative, in pochi e ben definiti soggetti di riferimento. Il risultato, però, è che un commissario può anche essere controllato da diversi vicepresidenti, con il pericolo di determinare conflitti tra i vari "ministeri".
E' ciò che accade nel caso di Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici appartenente al partito socialista francese e, in ragione della sua linea pro-flessibilità, "commissariato" attraverso la subordinazione del proprio portafoglio a ben due vicepresidenti: il finlandese Jyrki Katainen e il lettone Valdis Dombrovskis, entrambi notoriamente rigoristi. Un intricato schema di gerarchie che rischia di infuocare il clima, già abbastanza movimentato, tra i corridoi di Bruxelles.
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