Nel 1986 Sidney Lumet girò il film Power (Potere) che raccontava dello spin doctor Pete St.John, impersonato da Richard Gere, e della sua abilità a modellare candidati politici, in completo spregio dei dati reali e puntando soltanto a conculcare il consenso necessario a farli eleggere. Un film ancora attuale oggi e che ci fa interrogare sulla continua falsificazione e finzione – in Italia come altrove – cui sono sottoposti i sistemi politici, utile a occultare soprattutto il livello di arretramento reale della democrazia di fronte allo sconvolgente avanzare di un autoritarismo incontrollato.
Ancor più insidiosa dei poteri fuori controllo – da quello della finanza a quello dei funzionari di un apparato statale invasivo e controproduttivo (impersonato da burocrati e magistrati) – può risultare una politica che si dichiara in lotta con essi, ma poi lo fa secondo modalità e forme che risultano velleitarie o peggio ancora programmaticamente dilatorie e in appoggio di fatto degli interessi che quei poteri rappresentano.
Il pensiero corre inevitabilmente alla riforma della giustizia annunciata dal governo italiano e ridottasi per ora a un protocollo di intenti, che si distingue per lo slalom operato dagli estensori al fine di aggirare tutti i nodi centrali del problema. Per ora assomiglia molto agli orari d’apertura di certi uffici (“dalle 9.30 alle 12.00”), concepiti più per le esigenze del personale che non per quelle del pubblico. Ma lo stesso si potrebbe dire per qualunque altro argomento dell’agenda di governo del paese. Dalle riforme istituzionali a quelle di natura economica o sociale.
Se guardiamo al fisco, per esempio, tutti sono concordi nell’individuare i punti critici nella farraginosità del sistema tributario e nella tassazione elevata su imprese e lavoro. Si spacciano come novità le dichiarazioni pre-compilate (già in uso per i dipendenti pubblici) e fioccano le dichiarazioni in favore di una riduzione delle tasse, ma poi la realtà è ben diversa. È allo studio l’introduzione di un’ulteriore aliquota fiscale, anziché procedere a un loro drastico ridimensionamento con conseguente ampliamento della più bassa (23%). Né sono alle viste concrete iniziative volte a una semplificazione.
Ugualmente, da un lato si dichiara la centralità della scuola, ma – dall’altro – si opera per il suo sabotaggio sistematico, attraverso l’introduzione di norme che sono soltanto un capolavoro di tartufismo. Si proclama la volontà di migliorare l’istruzione, ma concretamente è richiesto ai dirigenti scolastici di conseguire il “successo formativo” attraverso la pratica del “6” politico; si annunciano interventi tesi a valorizzare le capacità individuali degli studenti, ma nei fatti li si rende impraticabili aumentando il numero di alunni per classe; anziché considerare la molteplice varietà delle realtà scolastiche, si insiste nell’adottare procedure uniformanti di valutazione che – fra l’altro – gli altri paesi hanno già abbandonato, giudicandole del tutto inefficaci. Si insiste ancora una volta in una finzione, che trascura del tutto il nuovo rapporto delineatosi in questi anni fra società e scuola.
Premessa di un vero processo riformatore dovrebbe essere l’abolizione del valore legale del titolo di studio, o per lo meno la definizione di un esito differenziato fra quanti hanno frequentato con profitto e quanti non lo hanno fatto. Fino a quando la politica persiste in questo gioco di finzioni, si condanna all’irrilevanza. Non basta il dinamismo o la baldanza, per scongiurare l’eredità del gattopardismo.
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