L’elettorato ha sempre rivelato una partecipazione meno intensa per le consultazioni elettorali europee, avvertite come un fatto piuttosto lontano, e del pari le forze politiche hanno spesso considerato il Parlamento europeo come una specie di cimitero degli elefanti, dove le segreterie candidavano personaggi il cui lustro cominciava ad appannarsi. Le elezioni dello scorso 25 maggio però hanno avuto esiti non privi di significato, anche ai livelli nazionali, ovviamente indiretto.
Al livello europeo l’affermazione degli euroscettici non soltanto in Gran Bretagna (non era certo una novità), ma in Francia e in Italia ha smosso tante preoccupazioni, anche tedesche per le possibili conseguenze sulla prospettiva europeista, che è parte integrante del percorso della Cancelliera e della coalizione da lei guidata, in quanto spazio vitale per quell’egemonia che la Germania, ben saldatasi nel suo regime democratico, è riuscita a conquistare in Europa.
Le critiche a una troppo forzata politica dell’austerità possono quindi aveva maggiori chanches di trovare qualche ascolto anche a Berlino, proprio perché l’ondata di malcontento che si è scatenata contro l’Europa trova il suo carburante soprattutto nei sacrifici che vengono imposti alle popolazioni e nel continuo allontanarsi delle prospettive di una ripresa economica, alla quale in fondo in molti paesi resta in definitiva legata la stessa riuscita delle politiche del rigore.
C’è stata la solita fuga di notizie, dalla quale è emerso che il Presidente Herman van Rumpuy presenterà alla riunione del Consiglio dei capi di stato e di governo di giovedì prossimo un documento centrato sulla crescita e l’occupazione ed è di questa mattina l’altra, più decisiva, notizia di un’apertura di Angela Markel alla flessibilità. Il premier inglese, che dell’euroscetticismo può esser considerato il campione, naturalmente è scatenato, ma questo si sapeva: per lui l’austerità va bene perché crea crepe all’interno dell’Europa.
E veniamo agli effetti delle europee sulla politica nazionale italiana. L’effetto principale è stato il 41% ottenuto dal PD di Matteo Renzi: ha fatto scalpore, perché mai la sinistra italiana aveva ottenuto un risultato di tale importanza. E lo ha ottenuto con un PD che si presentava da solo, senza più preoccuparsi di avere avversari a sinistra: era caduta cioè la remora che aveva impedito al PCI e poi al PDS, ai DS, all’Ulivo di Romano Prodi e allo stesso PD di conquistarsi uno spazio al centro, dove poi si vincono le elezioni.
Tanti elettori, sicuramente anche di quelli prima affascinati e poi delusi di Berlusconi, hanno visto nel partito di Renzi una prospettiva nuova, alla quale anche un elettorato moderato poteva dare la sua fiducia. Tanti limiti di questa “novità” sono stati evidenziati, anche da chi scrive, su Agenzia Radicale. Ma c’è pur tuttavia un passaggio che non può essere trascurato: la politica delle riforme e soprattutto delle riforme che implicano la revisione della costituzione, come la riforma del Senato.
Non si può infatti dimenticare che da un bel po’ di tempo l’ “intangibilità della costituzione” era diventata il biglietto da visita della sinistra, soprattutto quella più radicale e ruotante intorno al quotidiano “Repubblica” (il famoso circolo mediatico – giudiziario), la bandiera di una battaglia a largo raggio, che offriva la sponda di una (pretesa, ovviamente) posizione super partes, sopra i partiti, cui l’intera nazione non poteva non aderire e con la quale, con il dovuto reciproco rispetto, anche gli ambienti delle professioni, delle arti, delle università, della ricerca e soprattutto della magistratura non poteva non sentirsi d’accordo.
La “difesa della costituzione” era poi scivolata nella “costituzione che non si tocca”, nemmeno nel minimo particolare, nemmeno quando si pensa che gli aggiornamenti sarebbero indispensabili; la costituzione nella quale il PCI, anima della Resistenza combattuta, si era riconosciuto archiviando la prospettiva rivoluzionaria e deponendo le armi e nel cui nome era stata combattuta fino all’ultimo sangue la lotta contro Berlusconi.
Il fatto quindi che dal PD venga ora proposta e sostenuta una riforma costituzionale, e per di più di alto profilo, è un passaggio che non può essere considerato secondario. Il profilo è alto perché il bicameralismo perfetto era stato uno degli strumenti che i costituenti avevano individuato per cercare di ridurre al massimo i poteri del governo (insieme a tanti altri): la fissazione della sinistra, per paura di un nuovo fascismo.
Al tempo era stato un contributo alla pacificazione postbellica, ma poi era stato un cardine istituzionale dell’immobilismo della Democrazia cristiana e di tutta la politica consociativa, concertativa, corporativa e partitocratica dei tempi successivi: nulla può fare il governo senza accontentare tutti. Mediazione all’infinito. La scomparsa del bicameralismo, anche attuata con norme discutibili, sarebbe comunque un passo avanti, sinora mai compiuto: resterebbe acquisito il principio che la costituzione intoccabile può essere cambiata.
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