Oltre trent’anni fa, nel 1983, comincia la storia delle riforme istituzionali che avrebbero dovuto portare a una profonda modifica della legge fondamentale dello Stato approvata nel 1948. Allora la Commissione presieduta da Bozzi si concentrò su alcuni – non decisivi – cambiamenti che riguardavano la fiducia diretta al presidente del Consiglio da parte delle Camere, qualche aggiustamento delle autonomie locali e i meccanismi delle procedure d’accusa.
Poco, ma anche quel poco non giunse nemmeno a essere discusso in Aula. Dieci anni dopo ci si riprovò con la Commissione De Mita-Jotti, che lasciò sempre intatto l’impianto complessivo, proponendo di introdurre un qualche potenziamento della stabilità dei governi, attraverso l’istituto della sfiducia costruttiva e qualche discussione sul differenziamento dei compiti fra Camera e Senato.Un nulla di fatto anche allora.
Dopo i processi di Tangentopoli e lo scompaginamento dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica, seguito alla fine del mondo bipolare con il tracollo dell’Unione sovietica, l’introduzione del sistema di voto maggioritario delineò una forma di alternanza fra maggioranze di natura diversa.
Al primo governo di centro-destra presieduto da Berlusconi seguì il governo dell’Ulivo e, durante il quinquennio del centro-sinistra, D’Alema presiede la Bicamerale che avrebbe dovuto trasformare l’ordinamento costituzionale in più parti: dal sistema elettorale alla giustizia. Le discussioni, iniziate nel 1997, si arenarono ben presto quando dal Quirinale si impose il veto per ogni mutamento dell’ordine giudiziario e – conseguentemente – naufragò anche l’accordo raggiunto sul sistema di voto a doppio turno di coalizione.
A ben vedere, se ci si interroga sulla causa del fallimento di tutti questi tentativi di riforma costituzionale, si scopre che la ragione vera sta nel fatto che nessuno di essi ha mai affrontato lo snodo decisivo dei problemi. La Costituzione italiana fu concepita essenzialmente per impedire la guida o il comando del Paese: né da parte della maggioranza parlamentare, né tanto meno della leadership del partito più votato.
Il patto delle corporazioni consisteva in un defatigante compromesso tra le forze dell’establishment nazionale, garantito in sostanza dal sistema partitocratico e dalla forma istituzionale che ci si diede allora. Questa logica non è stata mai veramente messa in discussione e nemmeno oggi ciò avviene.
Deviando sul problema del bicameralismo perfetto o sui sistemi di voto, tutti non determinanti per modificare l’assetto complessivo di quel patto compromissorio, non si fa altro che pestare acqua nel mortaio allo scopo – oramai conclamato – di non pregiudicare alcuna rendita di posizione o ruolo in gioco.
Tutti i governi delle nazioni occidentali hanno due modelli fondamentali: o quello presidenzialista, con un capo dello Stato i cui – non pochi – poteri derivano dalla legittimazione popolare del voto diretto; o quello del premierato, con un capo di governo che ottiene la fiducia del Parlamento, dopo essersi candidato alla premiership alle elezioni politiche e che non è ostacolato da altri soggetti istituzionali nelle sue decisioni di governo, disponendo per di più del potere di scioglimento delle Camere.
O Francia/USA o Gran Bretagna/Germania. Il tertium italiano, con un presidente del Consiglio che non conta, sottomesso a un Capo dello Stato non eletto dal popolo e totalmente irresponsabile dei suoi atti, è soltanto una contraddizione in termine, una bizzarra e controproducente anomalia. È il "doppione" dei presidenti il problema, non tanto il "doppione" di Camera e Senato.
Se non sciolgono questo nodo decisivo, tutti gli interventi di riforma istituzionale si rivelano soltanto un puro esercizio politicistico, utile per il cabotaggio tattico di politici che condannano il proprio Paese a una condizione pre-moderna e provinciale.
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