La fuga a Beirut di Marcello Dell’Utri offre senza dubbio l’occasione per una stura senza fine di illazioni sull’interpretazione del fatto, ma ne rappresenta egualmente un’altra relativamente al discorso sul reato di “concorso esterno” di un soggetto al un reato commesso da altro soggetto.
Si tratta di un reato previsto in maniera molto indefinita dal codice penale, e che quindi lascia un vastissimo campo aperto alle interpretazioni, tanto che nella vicenda giudiziaria del grande collaboratore di Silvio Berlusconi la Corte di Cassazione ha scoperto, dopo due gradi di giudizio, che nel testo della condanna mancava l’oggetto criminale, rinviando gli atti alla Corte d’Appello competente per un nuovo giudizio.
Può apparire paradossale, ma non c’è da scherzare su una vicenda come questa, che fornisce una testimonianza specifica e grave della crisi profonda del nostro ordinamento giuridico, che addirittura nel suo complesso si trova in conflitto con quel principio generalissimo della civiltà giuridica liberale rappresentato dalla “certezza del diritto”.
E soprattutto proprio nel campo del diritto penale, dove le fattispecie dei reati trovano definizione in nozioni della vita sociale e sono quindi esposte alla genericità dei concetti di natura antropologica e alla loro variabilità nel tempo e nello spazio, nel costume e nelle relazioni sociali: violenze, minacce, offese, oscenità istigazioni…e non parliamo del comportamento di chi è accusato di concorso in reato commesso da altra persona, in particolare poi se si tratti di associazioni mafiose e degli infiniti e variegati rapporti che esse intrattengono con l’ambiente entro il quale operano.
L’illustre penalista Giovanni Fiandaca è intervenuto sul tema (Il Foglio del 15 aprile corrente) invocando un intervento legislativo nella materia del “concorso”, quanto meno per fissare dei contorni accessibili al linguaggio del diritto, il che rappresenterebbe senza dubbio un passo avanti; ma, sia pur lasciando in disparte la grande estensione delle possibilità interpretative comunque residuali, non si può non osservare che nel campo penale quest’opera di “precisazione” delle fattispecie dovrebbe riguardare forse tutti i reati o quasi e un’infinità di altre nozioni.
Oggi in realtà si è portati a ritenere che il difetto stia nel manico, come si suol dire, e cioè nella formazione della classe giudiziaria, e non meno negli orientamenti dei mezzi di comunicazione di massa, che sono problemi di cultura diffusa che soltanto nel tempo possono trovare delle soluzioni o almeno degli avvii al mutamento di uno stato di cose francamente inaccettabile, dannoso e pericoloso per la compagine sociale nel suo complesso.
C’è però un punto di partenza che non può essere trascurato e appare ineliminabile; e riguarda una premessa fondamentale per ogni iniziativa diretta ad affrontare la crisi della giustizia ed è quello delle modalità per avviare una riforma della magistratura. E al riguardo occorre sottolineare il fatto che gli stessi contrasti interni all’ordine giudiziario rivelano ispirazioni di stampo prevalentemente corporativo più che di contrapposizioni ideali tra scuole di pensiero ed è per questo che l’appello alla sensibilità e alla cultura dei magistrati è un elemento centrale di ogni riforma della giustizia..
Le leggi, sottolinea il prof. Fiandaca, non possono non essere interpretate, proprio per renderne possibile l’applicazione concreta, che rendere indispensabile incanalare realtà sociali estremamente variegate in formule giuridiche necessariamente brevi e sintetiche. E questo è il compito e la responsabilità – massima -, ineliminabili, dei magistrati, ai quali non ha senso dichiarare indiscriminatamente e genericamente la guerra.
A questo dato iniziale occorre richiamare la magistratura, proprio con l’obbiettivo di assicurare quella dignità incontestabile e quel rispetto che l’altezza delle funzioni impone. E si deve aggiungere che soltanto un richiamo ai principi che tendano a rafforzare la posizione di terzietà del giudice nel rispetto della funzione può configurare la strada che è necessario percorrere, perché la magistratura è lo strumento concreto, l’istituzione operante per la tutela del diritto e dei diritti al di sopra delle parti. E non si tratta soltanto della separazione delle carriere, ma dell’eliminazione delle tante contiguità che avvicinano magistrati e potere politico e dello stesso modo di atteggiarsi del personale che di tali compito deve farsi carico.
C’è un altro profilo ineliminabile in questo discorso. I politici hanno necessità di esperti un po’ in tutte le infinite materie nelle quali la loro opera si svolge; quella della giustizia è tra le più sensibili e forse la più esposta. Non si può allora trascurare il contributo che può essere fornito da un settore che nel corso di questi decenni è stato trascurato o, peggio, svilito, proprio in spregio ai principi e alle tendenze della cultura liberale della quale appare sempre più indispensabile il contributo, proprio in un tempo nel quale si è costretti a registare giorno dopo giorno i danni sempre più gravi prodotti dalla guerra che contro tale cultura è stata condotta.
Si tratta delle professioni, delle libere professioni che non a caso “liberali” sono chiamate e del ruolo negativo esercitato dagli ordini professionali, che proprio dell’apertura alle libertà nell’ambito dei rapporti associati rappresentano il concreto strumento operativo e che proprio nell’ambito delle organizzazioni di categoria sono state mortificate. E’ un altro capitolo sul quale deve con urgenza essere aperto un dibattito.
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