In un editoriale sul Corriere della Sera, Antonio Polito commenta la fase a dir poco turbolenta che con la crisi dell’esperienza politica di Silvio Berlusconi sta interessando il centrodestra italiano, sottolineando l’assenza in esso di una cultura comune di carattere liberale.
“Oggi che la vicenda cominciata nel 1994 si avvia alla conclusione – scrive Polito – sempre più il ruolo storico che vi ha svolto Berlusconi sembra simile a quello che Tito ha impersonato per la Jugoslavia: appena uscito di scena il fondatore, appena sollevato il velo di un’unità fittizia steso su divisioni profonde e irriducibili, tutto è tornato al passato, conflitti e scontri e odi, fino alla dissoluzione dell’effimera creatura”.
“La ragione – prosegue l’editorialista del Corriere – è facile da capire: in tutti questi anni non si è mai lavorato a costruire una cultura comune del centrodestra, un set di valori indipendenti dalle persone che di volta in volta li incarnavano”.
Il quadro tracciato da Polito coglie certamente il punto. La cosa che preoccupa, tuttavia, è che alla parola “destra” potrebbe essere sostituita la parola “sinistra” senza che i concetti espressi appaiano discordanti e fuori posto. Se in tutti questi anni, come dice Polito, “non si è mai lavorato a costruire una cultura comune del centrodestra”, lo stesso si potrebbe infatti tranquillamente dire del centrosinistra.
Lasciati alle spalle gli anni della democrazia imperfetta, dell’assenza di alternanza politica al governo e del predominio, a sinistra, della totalizzante cultura comunista, il centrosinistra italiano non è stato in alcun modo in grado di sviluppare una propria cultura di governo e di stampo liberale. Paradossalmente, a giungere in soccorso dei vari Pds-Ds-Pd, è stata proprio la discesa in campo di Silvio Berlusconi, che, polarizzando lo scontro politico, ha permesso alla presunta classe politica progressista di dissimulare la propria mancanza di contenuti trovando rifugio sotto l’accogliente tetto del nuovo totem dell’antiberlusconismo.
Di fronte alla crisi e alla graduale caduta dell’ "impero berlusconiano”, il centrosinistra sembra aver risposto, ancor più paradossalmente, facendo proprio lo schema personalistico che in questi decenni ha tenuto unito il centrodestra, ripresentandolo sotto diverse spoglie e sotto un diverso nome, quello di Matteo Renzi.
Nulla (o poco) nelle proposte dell’attuale premier pare infatti rispondere – come abbiamo avuto modo di sottolineare più volte su Agenzia Radicale – alla sfida aperta dall’uscita di scena del magnate di Arcore, vale a dire quella liberale, e alla conseguente opportunità per il centrosinistra di farsi finalmente grande.
Il ricorso al renzismo come collante per tenere unito uno schieramento disorientato dal declino del suo storico avversario, e dunque della sua populistica ideologia di fondo anti-Cav, risulta segnato dalla medesima assenza di consapevolezza politica che negli ultimi decenni ha caratterizzato l’immobilismo della sinistra.
Al di là dell’aspetto carismatico e personalistico, infatti, gli slogan dell'ex sindaco di Firenze non sembrano in grado in alcun modo di avviare la tanto sbandierata fase di rottamazione, proprio perché carenti di una coscienza sistemica e strutturale della situazione di difficoltà del Paese in tutte le sue diverse declinazioni (politiche, economiche, sindacali, giudiziarie, relative all’emergenza diritti ecc.).
Se, insomma, come dice Polito, di fronte alla progressiva dissoluzione del potere di Berlusconi “diventa sempre più difficile pronosticare per il centrodestra italiano l’esito felice che consentì al gollismo di sopravvivere al ritiro del suo fondatore”, lo stesso si potrebbe dire, in prospettiva futura, per il centrosinistra e per la sua attuale parentesi renziana, ancor di più se si considerano le tradizionali spinte masochistiche e conflittuali che da sempre distinguono il fronte di sinistra.
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