Una lettura complessiva del disegno di legge governativo sulla riforma del Senato, o meglio sulla sostituzione di quello attuale con un Senato delle autonomie connesso con la revisione del titolo quinto della costituzione, che proprio delle autonomie detta la regolamentazione, è possibile, ma complessa, e non poco, e aperta a tutta una serie di interrogativi, cui solo il tempo potrà dare risposta.
Partiamo da una premessa. La riforma del Senato è una riforma delle istituzioni, o meglio di una istituzione, alla quale viene però attribuito, di necessità, l’impatto sul quadro complessivo del funzionamento della nostra democrazia. E allora la prima domanda che vien fatto di formulare è: da quanto tempo si parla di riforma delle istituzioni? Sono passati esattamente trentuno anni da quel 14 aprile 1983 quando fu istituita la famosa Commissione Bicamerale Bozzi, venti deputati e venti senatori, con il compito di formulare proposte in alcune materie di particolare rilievo costituzionale, tra le quale, non a caso, figurava la materia delle autonomie locali.
L’anticipato scioglimento delle Camere ne impedì l’inizio del funzionamento, ma il 1° ottobre dello stesso anno il nuovo Parlamento ricostituì negli stessi termini la Commissione; da quel tempo lontano qualche riforma è stata introdotta, con esiti decisamente negativi e il degrado istituzionale nel quale il nostro paese è precipitato rende oggi il problema particolarmente attuale. La presentazione da parte del nuovo Governo di in ddl nella materia assume quindi un significato di vasta portata: fare, bando alle chiacchere inutili. Uscire dalla stagnazione nella quale da troppo tempo versiamo.
E c’è sicuramente un dato positivo: il governo appare impegnato in prima persona a sostenere un rapido iter parlamentare per arrivare quanto prima in porto. Si è cioè è evitata la nomina della solita Commissione, tipico strumento per cancellare una materia dall’agenda politica. Non è poco. Le forze politiche si trovano obbligate a confrontarsi, a discutere, a proporre concreti emendamenti, a votare.
E quanto al merito? Il merito inevitabilmente risente del quadro politico generale, anche se il governo ha dalla sua la difficile condizione nella quale la crisi economica e finanziaria ha costretto il paese, il quale peraltro incontra particolari difficoltà ad affrontare la situazione proprio a causa del degrado politico e istituzionale che caratterizza la nostra condizione attuale.
Renzi a Londra ha avuto l’OK di Tony Blair e ascolto interessato da finanzieri della City. Ma Blair ha confermato pari pari il quadro delle "riforme" da affrontare: la riduzione del deficit, definita "essenziale"; le riforme per cambiare la politica economica; e una crescita indirizzata non soltanto a generare occupazione ma anche a portare più denaro nelle finanze pubbliche: così testualmente da "La Repubblica" del 4 aprile. Una sorta di doccia fredda per gli entusiasmi facili: c’è tutto quello che da trent’anni non riusciamo a fare.
Ma vediamo – sine ira et studio - cosa si prospetta nei programmi del Governo, per quanto è dato comprendere… La riforma del Senato prima di tutto, destinato a diventare "Senato delle autonomie". La proposta risente del meccanismo costituzionale tedesco, che peraltro è teutonicamente coerente, mentre quello destinato a diventare nostrano presenta incertezze e tentennamenti.
Il Bundesrat della Germania federale (Consiglio federale o Consiglio dell’Unione, la seconda Camera) è un vero Senato delle autonomie ed è concepito per dare ruolo alle istanze territoriali, ma evitandone la fatale propensione al localismo: le autonomie vengono responsabilizzate proprio in quanto partecipi di primo piano alla responsabilità nazionale legislativa e amministrativa. I Länder (le Regioni) non fruiscono che in misura modestissima di potere legislativo, ma sono responsabili della gestione a livello locale della legislazione statale e nominano i componenti del Bundesrat (da tre a sei a seconda della popolazione) e il Bundesrat approva a maggioranza assoluta soltanto le leggi più importanti.
Prendiamo ora la proposta del Governo Italiano e partiamo dalla composizione del nuovo Senato: ne dovrebbero far parte i venti presidenti delle regioni, 2 membri per regione (cioè altri quaranta) eletti dai consigli regionali tra i propri componenti, 3 sindaci eletti da un’assemblea dei sindaci di ciascuna regione (cioè altri sessanta): poi ci sarebbero ventuno componenti nominati dal Capo dello stato e, per ora almeno a quel che pare, quelli che il Capo dello Stato ha già nominato nell’attuale Senato.
Tra l’altro, assemblee dei sindaci dovrebbero sostituire le province che vengono (e sono state) abolite.
E viene costantemente sottolineato che per tutto questo lavoro e funzioni non ci sono indennità e viene con altrettanta accuratezzaenfatizzato che si vogliono ridurre i costi della politica: sono discorsi abbastanza approssimativi quanto a portata riformatrice, perché ci vuole ben altro per ridurre questi costi e poi perché enfatizzare proprio quel partito dei sindaci giunto spesso alla notorietà per il profluvio di aziende municipalizzate spenderecce che sono venute in essere con tanto di burocrati superpagati e di consulenze d’oro? (Il che ovviamente non significa che manchino sindaci di alto livello politico e professionale e sono probabilmente i più, magari tra i piccoli di cui nessun parla mai).
E' probabilmente un prezzo da pagare per salvare capra e cavoli: un residuo attaccamento, sia pur indiretto, al principio di rappresentatività mescolato per forza di cose con la necessità del dover fare i conti con la realtà del bosco e del … sottobosco, ma anche, e non meno, con il problema che subordinare l’abolizione delle province alla sistemazione e redistribuzione delle funzioni attualmente esercitate avrebbe significato restare incastrati in un defatigante e infinito lavoro di riassegnazione di competenze che avrebbe compromesso la riforma, ancora una volta così condannata a passare alle calende greche, nel miglior stile immobilistico: superare in qualche modo il momento della spinta politica e poi qualche santo provvede. Si nomina una Commissione…
E passiamo adesso alle competenze del nuovo Senato: non deve votare la fiducia al governo e nemmeno le leggi di bilancio e quanto alle leggi ordinarie viene previsto che la Camera, dopo l’approvazione, le invia al Senato il quale, entro dieci giorni decide se interessarsene o meno e, in caso affermativo, ha trenta giorni per formulare un parere, sulla base del quale la Camera può eventualmente rivedere il proprio operato. Siamo, a quel che pare ai famosi due colpi: uno al cerchio e uno alla botte.
Il Senato parteciperà alle elezioni del Presidente della Repubblica, dovrà funzionare come raccordo tra Stato e Regioni, vedrà gli atti dell’Unione europea, valuterà l’impatto delle politiche pubbliche sul territori.
Di altrettanto rilievo le proposte di modifica del titolo quinto della Costituzione, quello che, per l’appunto, è dedicato alle Regioni, alle Province e ai Comuni: le province sono abolite, come si è detto, e così anche il CNEL, ma soprattutto viene abolita la legislazione concorrente tra stato e regioni e alla legislazione esclusiva dello stato sono aggiunte varie materie: la protezione civile, la scuola, l’università e la ricerca, il lavoro, il governo del territorio, l’energia (produzione, trasporto, distribuzione), le grandi reti di trasporto.É un elemento riformatore di grande rilievo, perché proprio la legislazione concorrente è stata fonte di confusione e di pasticci.
Viene poi stabilito il principio che la legge dello stato può interferire in materie di interesse regionale (meglio sarebbe stato dire che fissa principi generali) a fini di tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica e, per converso che lo Stato può delegare alle regioni, anche a tempo limitato, la competenza legislativa in alcune materie.
E infine qualcosa in materia di stipendi: dovrebbe essere lo stato a stabilire gli emolumenti complessivi per i presidenti e i consiglieri regionali, che non dovrebbero superare quelli dei sindaci dei comuni capoluogo di regione. Già e quelli di questi sindaci? E viene infine proibito ogni rimborso pubblico ai gruppi regionali (pericolo Batman).
A questo punto per prima cosa occorre chieder scusa per eventuali errori e mancanze involontariamente commesse in una materia tanto complessa. Ma mentre è doveroso rilevare che non ci si trova davanti a un tentativo di menare il can per l’aia, si deve comunque rilevare che non soltanto il progetto resta affidato all’avventura parlamentare, ma soprattutto che rimane aperta la questione fondamentale che è quella dell’instabilità politica. Non spetta certo al progetto affrontarla, ma se non la si affronta si resta al palo!
Non basta infatti concentrare in una sola Camera le principali questioni di ordine legislativo per garantire stabilità politica e un andamento fluido del lavoro dell’assemblea, perché c’è a monte lo scontro interno agli stessi partiti fra correnti politiche e la tendenza al frazionismo che rendono perennemente incerto il cammino delle compagini governative e delle assemblee legislative.
È un luogo comune che all’Italia manca una vera destra; ed è vero. Ma lo è altrettanto che manca anche una vera sinistra: dopo la crisi degli anni novanta non c’è stata alcuna riflessione sulla costituzione materiale e nessun tentativo per capire perché la crisi del 1922 portò al fascismo e perché dopo il crollo del muro di Berlino la sinistra postcomunista non ha compiuto una sua Bad Godesberg invece di continuare a fare una guerra ossessiva a Craxi e al PSI. Siamo così rimasti senza partiti, come luoghi di mediazione tra società civile e istituzioni, ma con tutti i vizi della partitocrazia, preda di populismi selvaggi di destra e di sinistra e di residui di un passato duro a morire.
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