La riunione dei partiti socialisti europei che si è tenuta la scorsa settimana a Roma doveva definire un programma comune del Partito Europeo dei Socialisti per le europee del prossimo maggio.
La partecipazione del PD testimonia de fatto che la parola “socialisti” è intesa in senso lato, perché il PD e i suoi antenati non sono mai stati socialisti e non si sono mai chiamati tali: margheritici, popolari, prodiani, sinistri, democratici…qualcuno si è persino divertito a chiamarli “post” di questo o di quell’altro (l’umorismo è una componente essenziale della democrazia, più della stessa costituzione e dello stato di diritto…), ma quanto alla redazione di un programma comune, essa è negli auspici di tutti: ma ci riusciranno? O almeno ci riusciranno in tempo utile per poter affrontare le elezioni di maggio?
Questi dubbi sono legittimi. Partiamo, doverosamente, dalla Germania. La SPD è al governo con una Cancelliera stretta tra Jens Weidmann (il mastino della BuBa – Bundes Bank) e l’A.f.D., quell’Allianz für Deutschland, che Angela Merkel ha sì sconfitto nelle elezioni dello scorso settembre tenendola fuori dal nuovo Bundestag, ma di stretta misura, dato che il nuovo movimento ha quasi sfiorato il quorum, pur non riuscendo a superarlo.
Angela Merkel ha però pagato un caro prezzo per questa vittoria, per le conseguenze delle carte che ha dovuto giocare per ottenerla. La sua campagna infatti è stata caratterizzata da una forte connotazione europeista, che ha avuto successo (ha sfiorato negli esiti la maggioranza assoluta).
Gli umori in Europa, peraltro, registrano l’avanzata di forti correnti antieuropeiste, in particolare in Francia, dove François Hollande conosce percentuali di gradimento per la presidenza parecchio basse e dove la sua politica economica non ottiene risultati, mentre inoltre è fortissima contemporaneamente la crisi del movimento sindacale con un elettorato operaio che ormai vota massicciamente per il Front National.
Questo movimento, sotto la guida di Marine Le Pen, succeduta al padre Jean Marie al vertice della formazione, ha impresso al Front un profondo rinnovamento, con una politica orientata verso i diritti civili, peraltro sempre declinati in versione nazionalistica, come carattere tipico della Francia e della sua cultura e con un approccio nuovo al problema dell’immigrazione, problema al quale l’elettorato francese è assai sensibile, in quanto vede nell’ondata migratoria una forte minaccia per l’identità nazionale (si veda il saggio di Alain Finkielkraut “L’identité malheureuse”, che ha ottenuto rilevante successo di pubblico e di critica).
Marine Le Pen non si è mossa più sulla scia delle vecchie nostalgie che arrivavano fino ai rimpianti della brutta avventura del governo di Vichy, collaborazionista - durante la guerra - con l’invasore nazista e anche a sfondo razzista: l’immigrato è scisso dall’immigrazione ed è visto anche lui come una vittima al pari delle maestranze francesi, che subiscono una concorrenza sleale per effetto della globalizzazione.
La risposta resta comunque di stampo sciovinista e protezionistica sul piano economico e puntualmente antieuropeista. In tali condizioni Hollande può fare solo una cosa per restaurare le fortune del suo partito, oltre che quelle della sua presidenza e della stessa economia francese afflitta da aumento del debito pubblico e della disoccupazione: ottenere una mano dall’Europa. E poi ha dentro il governo il suo Melanchon, che preme sul versante sinistro.
E a questo proposito si deve sottolineare il fatto che la B.C.E. (Banca Centrale Europea) guidata da Mario Draghi è orientata in senso favorevole a dare un aiuto ai paesi dell’Unione che si trovano in difficoltà ed ha già messo in atto una sia pur modesta iniziativa dell’Istituto perché funzioni quale “prestatore di ultima istanza” (acquisto di titoli del debito pubblico degli stati in difficoltà) che si è rivelata l’unica misura in grado di frenare e scoraggiare le speculazioni della finanza internazionale di arrembaggio.
Ma enormi sono state le difficoltà per superare le resistenze tedesche, nonostante che il presidente della B.C.E. abbia tenuto ferme le misure di una politica di rigore previste dai trattati di Maastricht e di Lisbona. Quale sarà allora il comportamento della S.P.D.?
Perché non si deve trascurare il fatto che anche la Germania ha i suoi problemi, ha i forzieri delle sue banche pieni di titoli che rendono bene perché poco affidabili e guadagna molto con le esportazioni, soprattutto verso l’Europa, che però, essendo in difficoltà, compra sempre di meno, perché molti paesi sono strozzati per le politiche di pareggio dei bilanci; in Germania, poi, se c’è meno disoccupazione che altrove, ci sono però diversi milioni di lavoratori che sono pagati a meno di cinque euro all’ora e molti di questi arrivano appena sui tre.
La socialdemocrazia tedesca ha sicuramente acquistato grandi meriti verso la nazione, quando nei primi anni duemila proprio ad opera del cancelliere Schöder e con la cooperazione dei sindacati (merito ancora maggiore!!) ha avviato tutta una serie di riforme (pensioni a 67 anni, stipendi e salari bassi per evitare licenziamenti, bilanci pubblici in ordine...), che erano indispensabili in quanto le enorme spese effettuate negli anni novanta per rimettere in sesto la Germania est disastrata da decenni di comunismo, avevano depauperato le casse dello Stato.
E la Germania fu allora aiutata dall’Europa, doverosamente, e riuscì ad avviare una ripresa economica che la mise in condizione di affrontare la crisi tuttora in corso in buone condizioni e con un’economia tuttora in crescita anche se rallentata rispetto a qualche anno fa.
Chi fa le riforme dello stato sociale paga un prezzo e la socialdemocrazia tedesca lo ha pagato e lo sta pagando: alla sua sinistra si è costituita una nuova formazione politica “più a sinistra”, la “Linke” di Oskar Lafontaine, erede del Partito socialista tedesco sorto nella Germania est dopo il crollo del 1989 e poi rafforzatasi anche nell’ovest del paese e che esercita una concorrenza sulla SPD oggi al Governo con la democrazia cristiana di Angela Merkel.
Il nostro PD pure ha i suoi concorrenti, politici e sindacali, dentro e fuori la sua compagine organizzativa e deve fare i conti con la crisi economica. Esiste cioè un terreno comune alle tre socialdemocrazie di Italia, Francia e Germania cui si aggiunge quella spagnola di Zapatero, sconfitta dai democristiani di Rajoy e in cerca di nuove sponde. E tutti e quattro hanno bisogno di un rallentamento del rigore finanziario, non certo di farne a meno, ma almeno di diluire le restrizioni nel tempo e di mettere un po’ di soldi in circolazione.
Esistono cioè le premesse di fondo per un accordo delle sinistre europee su un programma comune e soprattutto sarebbe essenziale il fatto che si capisse che soltanto uniti possiamo sconfiggere la crisi, cosa che non siamo riusciti sinora a fare procedendo divisi.
Occorre essere forti per sconfiggere la speculazione internazionale. E occorre essere forti e determinati per tener testa a una Russia che sta di nuovo tentando di rialzare la cresta e non possiamo lasciare che schiacci l’Ucraina in cerca di libertà. E’ un’occasione storica, se la perdiamo buttiamo a mare ogni possibilità futura.
Il programma comune per i socialisti del Partito Europeo è già scritto nella storia davanti a loro. Bastano poche firmette e saper alzare la testa sopra i pettegolezzi e le maldicenze del vicolo…per ritrovare la politica vera. E quanto ai tecnici…guai a quei politici che si ritrovano nelle loro mani per non aver saputo fare il proprio mestiere.
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