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16/11/24 ore

Ambientalisti per caso a Gioia Tauro


  • Antonio Marulo

Nei giorni scorsi c’è chi ha paventato addirittura la "guerra civile", per la precisione il governatore della Calabria Scopelliti, a causa della decisione italiana di fornire il supporto logistico del porto di Gioia Tauro per il trasbordo delle armi chimiche provenienti dalla Siria, nell’ambito delle operazioni internazionali di disarmo dell’arsenale del regime di Assad.

 

Come si dice in questi casi, le comunità interessate sono sul piede di guerra e i sindaci dei comuni della piana con un documento hanno dato mandato ai primi cittadini di San Ferdinando e Gioia Tauro “ad opporsi”, perché il porto non sarebbe attrezzato e i rischi ambientali sarebbero elevatissimi.

 

Esattamente il contrario di ciò che ritiene la Presidenza del Consiglio, che fa sapere con una nota che «negli anni 2012-2013 il porto di Gioia Tauro ha movimentato 3.048 container contenenti sostanze tossiche 6.1, per un totale di 60.168 tonnellate». Il carico dalla Siria oggetto di tanta apprensione, «da trasbordare da nave e nave senza sbarco a terra e senza stoccaggio», appartiene alla stessa categoria ed è di «circa 60 contenitori da 20 piedi contenenti merci pericolose appartenenti alla classe 6.1 (materie tossiche)». Una quantità irrisoria rispetto al normale già “smaltito” in loco, che darebbe però un senso a chi un senso vero come porto non ce l’ha mai avuto.

 

Infatti, proprio l’assenza di infrastrutture adeguate, soprattutto sotto l’aspetto dei collegamenti con l’entroterra, ha reso Gioia Tauro ideale e per certi aspetti struttura “d’eccellenza” solo per operazioni di trasbordo. Un’occasione propizia si presenta, dunque, per dare valore a ciò che resta una grande incompiuta, sfruttando il rilievo internazionale e l’importanza di un’operazione che non ha precedenti e che vede l’Italia in prima fila con altre nazioni.

 

Tutto questo non sembra tuttavia aver rilievo. Così, i sedicenti pacifisti e ambientalisti a fasi alterne in servizio permanente effettivo stanno fornendo, opportunamente sollecitati, il consueto contributo di no e, come spesso accade, la popolazione del luogo, all’uopo strumentalizzata, si accorge del pericolo avvelenamento fino a ieri ignorato, ma - seguendo lo stesso metro di giudizio - già ben presente e quotidiano.

 

La verità è ovviamente un’altra. I presunti pericoli c’entrano poco. La sindrome del Nimby (non nel mio giardino), colpisce in questi casi per ovvie ragioni: il tornaconto economico, non sempre aderente alle reali esigenze del territorio, che spesso – se ottenuto – viene impiegato male.

 

I sindaci della piana, dal loro punto di vista si giocano le loro carte per battere cassa, dando comunque prova dell’andazzo italiano e della forma mentis di una classe dirigente, politica e non, poco incline a creare le condizioni per lo sviluppo di un’area – nella fattispecie la Calabria – saldamente nelle mani della criminalità organizzata.


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