La sentenza della Corte costituzionale del 19 giugno 2013 è destinata a rimanere nella storia d’Italia, perché con essa è stato messo a fuoco il problema istituzionale di fondo della nostra democrazia, rimasto irrisolto e non da oggi o da ieri, ma dal 1920, quando esso si pose nel quadro del suffragio universale appena arrivato (anche se dimezzato, perché le donne non votavano): il problema della divisione dei poteri.
Con lo statuto albertino la situazione era rimasta pasticciata perché con quella prima costituzione - nata piemontese e poi passata all’Italia - si era posto in essere un governo costituzionale, ma non parlamentare, che poi di fatto divenne piano piano tale.
E con la crisi degli anni venti - sempre con lo statuto albertino, ma con passo accelerato questa volta - si passò al governo autoritario. E nel 1946-48 la redazione della nuova carta subì fortemente il peso dell’eredità dell’esperienza fascista, vista peraltro solo negli aspetti più immediati e appariscenti: quale sincero democratico si sarebbe mai azzardato non dico a dire apertamente - ma almeno a lasciar capire - che nel crollo della democrazia risorgimentale c’erano colpe degli antifascisti, almeno indirette, storico-politiche?
Che, cioè, il non aver voluto impostare correttamente il problema della governabilità, in termini di divisione dei poteri, causò un contraccolpo di cui un geniaccio spregiudicato, complice un monarca inadeguato, profittò, giocandosi al livello di massa (ormai c’era il suffragio universale) il populismo sui seicentomila morti della prima guerra mondiale, e la copertura di aperture al sociale, abilmente gestite, ponendo in atto una governabilità all’inizio solo repressiva, poi sempre più autoritaria, poi finita nella Repubblica Sociale Italiana.
Certo, Piero Calamandrei aveva ben capito e alla Costituente proponeva un governo di stampo presidenziale (della serie di cui fa parte il semipresidenzialismo di De Gaulle), ma nessuno gli dette retta e il governo della nostra costituzione è di tipo parlamentare, anche se c’era la riserva di certi poteri del Presidente della Repubblica, piano piano (come con lo statuto albertino) larvatamente accantonati e riemersi timidamente solo con Giorgio Napolitano, ma senza che nessuna forza politica ne abbia rivendicato la perfetta costituzionalità.
In parole povere, sotto il profilo istituzionale siamo sempre fermi al 1920, immobili su uno degli aspetti di fondo della questione liberale, la divisione dei poteri, fondata sul principio che il governo è uno dei poteri dello stato e come tale ha compiti e responsabilità proprie e quindi deve essere dotato dei mezzi per fare quello che deve fare, responsabile ”politicamente” davanti al parlamento e/o al capo dello Stato.
Occorre fare attenzione: le reazioni della destra alla sentenza della Corte costituzionale appaiono soltanto l’esito di un’emotività, purtroppo spiegabile, e di preoccupazioni lontane dai temi e dai rischi realmente coinvolti. Se i parlamentari si dimettono, subentrano i primi dei non eletti, probabilmente ben felici di conquistare uno scranno, sia pur di risulta: soluzione tampone molto adatta quando si va avanti di emergenza in emergenza.
Ma il fatto è che la forzata retraite di Berlusconi avrebbe conseguenze vastissime nel paese, non paragonabili con la vicenda sottostante, soprattutto se, come leggo su Repubblica, in una nota dettagliata si legge che la Corte ha motivato la decisione facendo presente che “in base al principio di leale collaborazione e fermo rimanendo che il giudice, nel rispetto del principio della divisione dei poteri, non può invadere la sfera di competenza riservata al governo, spettava all’autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto a partecipare all’udienza del 1° marzo 2010 l’impegno dell’imputato premier di presiedere una riunione del Consiglio dei ministri da lui convocata nel giorno stesso in precedenza indicato come utile per partecipare all’udienza”….Né Berlusconi ha fornito indicazioni sulla concomitanza, sulla non rinviabilità della seduta del Consiglio dei ministri, su una data da concordare per l’udienza.
Le sentenze occorre leggerle per intero, certamente, ma la motivazione sembra chiara e, ad avviso di chi scrive, lascia aperti molti dubbi: intanto il principio di collaborazione tra poteri dello stato è estremamente vago e, concretamente, può riempirsi di tutto e del suo contrario; ma poi il sindacato del giudice sui motivi della richiesta di rinvio di un’udienza, non comporta un assai penetrante potere di sindacato sui poteri del governo?
I legali del premier hanno sbagliato a non esser più dettagliati o non erano affatto tenuti a dover fornire ulteriori dettagli nelle prove, proprio in base al principio della divisione dei poteri? Ora questo principio comporta soprattutto la definizione degli ambiti dell’esercizio del potere governativo, a mio avviso impropriamente definito esecutivo, perché governare significa non tanto mettere burocraticamente ad esecuzione un programma prefissato, ma inventarsi ogni giorno in concreto soluzioni a problemi sempre nuovi, oggi poi legati strettamente alle vicende della politica mondiale.
E il governo deve poi rispondere al capo dello stato o al governo o parte all’uno e parte all’altro, secondo la forma di stato; ma si tratta di risposta politica e da valutare in base a criteri politici. Sta in questo panorama la motivazione di fondo delle garanzie costituzionali per i parlamentari e per i membri del governo. E svicolare non pare molto semplice.
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