C’erano una volta gli accordi commerciali del WTO. Si era sul finire del secolo scorso, agli albori della Globalizzazione dell’era moderna: da una parte i buoni, i due terzi del mondo sottosviluppato; dall’altra parte i cattivi, l’Occidente opulento e sfruttatore che con l’ondata liberalizzatrice voleva perpetuare il proprio benessere ai danni delle nazioni povere. Almeno, questa era la vulgata terzomondista e no-global prevalente, diffusa da una letteratura (prima di tutto occidentale!) che si mobilitava per la "causa giusta".
I fatti e la storia hanno poi dimostrato che le cose non stavano proprio così e che l’abbattimento delle barriere economiche e commerciali – con tutti i limiti e i difetti – ha permesso a nuovi commensali di affollare il banchetto planetario per una divisione meno iniqua della torta; a pagarne il prezzo è stato finora chi – abituato a non conquistarsi con i denti il proprio status - non ha saputo approfittare delle opportunità che un mondo affamato di benessere offriva.
Ma questa ormai è storia già antica anche se recente. Ora una nuova presunta minaccia si profila all’orizzonte: un ciclone liberalizzatore che rischia di abbattersi sull’Europa proveniente dalle coste Atlantiche. Si tratta del TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), un accordo fra Stati Uniti-Canada-Ue che, se concluso, creerebbe un unico mega-mercato. Questa volta il terzo e il quarto mondo non c’entrano: è un affare tutto interno alla regione più ricca del pianeta, dove la parte del buono spetta al Vecchio continente con i suoi usi e costumi, mentre nei panni del cattivo fanno il solito figurone l’America (intesa nell’accezione ampia inclusiva dei cugini canadesi) e le sue demoniache multinazionali.
In realtà, del Ttip si sa ancora molto poco. Se ne sta parlando con sempre più insistenza, ma a fare informazione, più che i fatti, sono ancora gli uffici stampa dei due fronti di opinione contrapposti. È inutile sottolineare che i più attivi sono i contrari all’accordo, che temono soprattutto gli effetti di quella parte dei negoziati che punta a una “maggiore compatibilità regolamentare in materia di appalti pubblici, proprietà intellettuale, sviluppo sostenibile, dispute fra Stato e investitore”, in vista di una definizione di standard globali comuni.
In sostanza, il Ttip aprirebbe alla “liberalizzazione” sfrenata della società europea – come scrive Gabriele Pastrello sull’ultimo numero Nomos & Kaos – secondo i canoni degradanti a stelle strisce; senza contare che il principio del riconoscimento reciproco delle autorizzazioni commerciali - così come terrorizzano i “responsabili di "Stop Ttip", che unisce 320 organizzazioni di 24 Paesi contro la firma degli accordi - permetterebbe l’invasione di “carne agli ormoni, o trattata con antibiotici, di polli sterilizzati con la varechina, di grano e verdure prodotti da colture geneticamente modificate… e che in generale l'Europa subirà la concorrenza sleale dell'industria agroalimentare americana, avvantaggiata da una legislazione meno severa di quella europea”.
Sul fronte opposto si sta denunciando invece il catastrofismo e la falsa informazione su un negoziato ancora tutta da definire nei dettagli per nulla penalizzanti sulle regole, che porterà vantaggi prima di tutto all’Ue in termini di esportazione, produzione e lavoro. Anzi, i migliori standard qualitativi europei potranno al contrario far breccia nel mercato americano, sempre più attento a tali aspetti. E in questo l’Italia, con il suo rinverdito made in Italy, potrebbe essere tra i principali beneficiari. In più, sottolineano i difensori del Trattato, l’unione transatlantica America-Europa potrà meglio fronteggiare la concorrenza delle nuove economie emergenti, imponendo loro di adeguarsi a standard migliori.
Questo è se non altro l’auspicio a cui piace aggrapparci, in attesa di capirne di più. Del resto, al netto della propaganda no-global, non è detto che anche questa volta ad avere la meglio non siano i cosiddetti buoni sui cattivi. WTO docet!
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