Esuberi. Si chiamano così i lavoratori di troppo in un’azienda. Alitalia ne ha sempre contati in gran numero, anche in tempi non sospetti, quando il monopolio e la regulation consentivano la manica larga anche nella concessione di privilegi e benefit. Oggi, sull’orlo del baratro e nonostante le sforbiciate degli anni passati, ne ha da smaltire ulteriori 2251 per assecondare le richieste dei possibili acquirenti arabi di Etihad.
In questi giorni la questione è stata oggetto di trattativa con i sindacati più rappresentativi. Un accordo è stato trovato in un primo momento con Cisl e Uil, mentre la Cgil si è trovata di fronte al solito dilemma morettiano, al momento non ancora sciolto del tutto: mi si nota di più se firmo o se non firmo, tanto poi vanno avanti lo stesso?
L’accordo con i sindacati - sul quale le ultime notizie raccontano di uno stop notturno imprevisto - in sostanza prevede, come riporta Il Sole 24 Ore, che “sui 2.251 esuberi iniziali, 616 dipendenti saranno collocati entro il perimetro della nuova Alitalia, 954 saranno messi in mobilità (per una durata fino a 5 anni per chi ha più di 50 anni) e coinvolti nella sperimentazione del contratto di ricollocamento. Altri 681 dipendenti, invece, saranno messi in mobilità per essere collocati entro il 31 dicembre 2014 in altre società.” Nel piano dovrebbe essere compreso anche un contributo di solidarietà dei lavoratori con un risparmio per l’azienda di circa 31 milioni.
Intanto anche su altri fronti non meno fondamentali sono ancora in corso le trattative. I salvatori esteri della patria hanno infatti posto condizioni capestro per il loro ingresso, chiedendo di depurare la compagnia da tutte le incrostazioni, vale a dire dai debiti e da fardelli di vario tipo. Non è la prima volta che accade. Anche nel precedente “salvataggio” i "capitani coraggiosi" strapparono a loro favore una bad company ad hoc, dove furono caricati i rifiuti da smaltire a spese del contribuente, mentre con la parte cosiddetta buona si costituiva il nuovo vettore con operazioni discutibili che hanno poi portato al fallimento.
Questa volta, nella pulizia richiesta dagli emiri “tutti dovranno fare la loro parte”. Almeno così si dice. E in effetti, le banche creditrici, fra cui UniCredit e Intesa Sanpaolo, si sono impegnate a rinegoziare parte dei crediti, mentre i soci della compagnia dovranno farsi carico di un bel po’ di passività. Pare che manchino all’appello mezzo miliardo circa di euro: è la cifra che serve per far vivere Alitalia fino a quando non arriveranno i liquidi dalla penisola arabica. Infatti Ethiab non si fida e ha chiesto un impegno dei soci attuali a coprire anche eventuali “sopravvenienza di oneri derivanti da precedenti contenziosi o di perdite nel 2014 superiori al budget di inizio anno”.
La cosa non piace soprattutto a Poste, che l’autunno scorso è diventato socio per dare, senza apprezzabili successi, nuovo ossigeno (pubblico) alla compagnia. La partecipazione di Poste apre un altro problema, già peraltro oggetto di polemiche al suo ingresso in società:quello degli aiuti di Stato mascherati, che nel caso specifico significano per gli italiani, se Bruxelles consente, che “paga Pantalone” un’altra volta.
Comunque sia, se tutto dovesse filare come auspicato dai più, perché come dice Benetton “non ci sono alternative”, le nozze Alitalia-Etihab si faranno con auspici futuri forse migliori di quelli forniti dalla “cordata Brancaleone” che scongiurò il passaggio di Alitalia ad Air France. Questo perché gli arabi, se decidono di buttare soldi, lo fanno in arredi dorati o affollando i propri garage di Ferrari e magari acquistando squadre di calcio e calciatori a cifre esorbitanti; ma se investono in economia reale cercano di avere profitti e non amano farsi fregare, come dimostra il fatto che stanno aspettando di vedere cammello prima di pagare moneta.
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