di Gianni Carbotti e Camillo Maffia
La gravità del caso Ilaria Salis ha colpito profondamente i media, la politica e l'opinione pubblica a causa delle inaccettabili condizioni delle carceri ungheresi, oltre alle serie contraddizioni di un sistema-giustizia che vede la donna in prigione da undici mesi pur non essendo ancora stata giudicata.
D'altro canto stupisce come media, politica e opinione pubblica siano tanto impressionati da questa vicenda, mentre sono quotidianamente indifferenti ai drammi di altri italiani detenuti in prigioni all'estero in condizioni talvolta anche peggiori, e alle continue sofferenze a cui sono sottoposti i nostri connazionali nelle stesse carceri italiane.
Per quanto possano suscitare giusta indignazione le catene di Ilaria Salis, fa strano infatti che questo accada in un Paese segnato da un profluvio di immagini ormai iconiche di personaggi in manette e schiavettoni divenuti ormai simbolo della (mala)giustizia italiana, da Enzo Tortora a Enzo Carra fino allo stesso Marco Pannella arrestato per le azioni di disobbedienza civile.
Proprio per via delle inaccettabili condizioni in cui vivono le persone ristrette l'Italia è stata in più di un'occasione condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) per la violazione dell'art. 3 che vieta i “trattamenti disumani e degradanti”: lascia perciò perplessi il modo in cui, in seguito al caso Salis, si sia sbandierata la condanna subita dall'Ungheria, senza menzionare, con rare eccezioni, quelle ricevute dallo stesso Stato italiano.
Con questo non si vuole fare paragoni fra il sistema-giustizia e le carceri ungheresi e quelli italiani, dove gli eccessi giustamente denunciati in merito alla situazione in Ungheria non si verificano: viene però spontaneo stigmatizzare la mancanza di sensibilità che circonda da sempre queste problematiche.
(Enzo Tortora)
I detenuti non hanno voce e quando ce l'hanno, come accade con lo sciopero della fame di Rita Bernardini e di Roberto Giachetti che si protrae ormai da circa venti giorni, nell'ambito della iniziativa promossa da Nessuno Tocchi Caino, i media non fanno a gara per ascoltarla, né la politica per trovare delle soluzioni.
Soltanto ora, e sempre grazie all'impegno di Rita Bernardini e di Nessuno Tocchi Caino, i media si sono accorti di Filippo Mosca, detenuto in Romania nelle condizioni disumane denunciate dalla madre inascoltata per dieci mesi.
Ma si tratta solo di un esempio: i detenuti italiani all'estero sono oltre 2.500, al netto di casi eclatanti come quello di Chico Forti negli USA e a fronte dei 60.637 carcerati sul suolo nazionale in 47.500 posti disponibili, che vivono in celle con un tasso di sovraffollamento medio pari al 118 percento.
(Enzo Carra)
Mentre l'Italia ricorda la condanna che l'Ungheria ha ricevuto dalla CEDU, sembra infatti non considerare che ne rischia un'altra, dopo la sentenza Torreggiani del gennaio 2013 e quella Sulejmanovic del 2009, ricevute proprio a causa del sovraffollamento.
Da allora nessuno ha posto riparo ad una situazione che non ha fatto altro che aggravarsi, creando condizioni di vita sempre più insostenibili (anzitutto sotto il profilo igienico-sanitario) che culminano nell'elevato e inaccettabile tasso di suicidi che interessa i detenuti e gli agenti penitenziari, 17 dall'inizio dell’anno.
Numeri che fanno accapponare la pelle, in un Paese la cui Costituzione prevede all'art. 27 che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
(Marco Pannella)
Ma nelle carceri italiane si muore anche di malasanità, in reparti non adeguati al numero esorbitante di malati fisici, psichici e di tossicodipendenti, questi ultimi che continuano a riempire gli istituti di pena in quanto i recenti provvedimenti, anziché cercare di far uscire di prigione persone che dovrebbero essere curate dai problemi di tossicodipendenza o che comunque hanno commesso reati di lieve entità, hanno inasprito ulteriormente le pene già elevate legate alla vendita di stupefacenti, che finiscono di fatto per sanzionare in diversi casi anche il consumo.
Una nostra fonte ci ha raccontato di un detenuto gravemente malato che è morto attaccato al respiratore dopo aver atteso assistenza invano per due ore. Un altro, che soffriva di problemi al cuore, è stato congedato dall'infermeria in seguito a un malore ed è caduto a terra senza vita poco dopo.
E non si tratta di tragedie isolate: al di fuori dei casi in cui le persone vengono mandate nei reparti di medicina protetta degli ospedali affinché possano ricevere i giusti trattamenti, i malati negli istituti di pena non sono seguiti certo in modo adeguato, a partire dalle condizioni strutturali drammaticamente inadatte.
(Filippo Mosca)
Il numero di malati psichiatrici supera altamente quello degli agenti penitenziari, sotto organico e non attrezzati, che non hanno gli strumenti per gestirli, con una situazione che rievoca a volte scenari come quelli che hanno portato alla chiusura dei manicomi con la legge Basaglia e che è costata all'Italia un'altra condanna della CEDU nel 2022, con il caso di un malato in condizioni d'incompatibilità con la detenzione nella prigione ordinaria, riconosciute dai tribunali nazionali e poi dalla stessa Corte europea, che avrebbe dovuto essere trasferito in una struttura idonea e ha trascorso invece due anni nel carcere di Rebibbia.
Malati psichici che in carcere, in effetti, non ci dovrebbero neppure stare, ma faticano ad essere ricollocati a causa delle difficoltà nell'implementazione delle REMS, mentre il numero e le ore degli psicologi sono completamente insufficienti (circa 600 psicologi con una media di 30 ore al mese), con gravi conseguenze nei progetti educativi e nei percorsi di reinserimento sociale.
E non è tutto. Ci sono bambini di pochi mesi che non possono vedere la luce del sole come i coetanei perché vivono negli istituti di pena con le loro mamme, e mamme che non riescono ad avere notizie dei propri figli fuori dalla prigione per via del limite di una telefonata a settimana.
Misure che appaiono inasprite dal nuovo “pacchetto sicurezza” varato dal governo il quale, anziché sanare uno scandalo come quello dei neonati in carcere trasferendo le donne in apposite strutture una volta per tutte, prevede al contrario una stretta sulle detenute madri.
(Chico Forti)
Per non parlare della tortura, anche quella giudicata come tale da ben due sentenze CEDU, del regime del 41 bis. 740 detenuti che vivono in una cella singola che contiene un letto, un tavolo e una sedia inchiodata a terra, sotto sorveglianza 24 ore su 24. Possono scambiare una parola con un massimo di 4 carcerati per sole due ore al giorno, oltre a un colloquio mensile videosorvegliato che si svolge dietro un vetro divisorio, in sostituzione del quale è consentita una singola telefonata al mese della durata di 10 minuti.
A questo si somma una serie di limitazioni aggiuntive che vanno dalla corrispondenza agli oggetti che è lecito ricevere dall'esterno. Circa 300 scontano l'ergastolo e oltre 200 con condanna definitiva: significa che molti di loro fissano le pareti di quella cella con la sola prospettiva realistica di morirci dentro.
Di tutto questo la politica, i media e l'opinione pubblica generalmente s'interessano ben poco, e normalmente reagiscono, laddove sollecitati, con risposte distratte quali: “Costruiremo nuove carceri”, “Faremo un approfondimento”, “D'altro canto è pure giusto che paghi chi ha sbagliato”.
Certo, chi ha sbagliato deve pagare, ma dovrebbe farlo secondo la legge e non, come è accaduto il 3 aprile nel carcere di Reggio Emilia, con un brutale pestaggio che, per quanto non abbia lasciato indifferenti, rischia di essere percepito alla stregua di un caso isolato che desta scandalo, collocato al di fuori di un contesto che è invece talmente endemico ed esasperato, per i detenuti e per gli operatori, da produrre periodiche esplosioni di violenza contro se stessi o verso gli altri.
(foto Ilaria Salis da Corsera)
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