La tragica vicenda della detenuta di Rebibbia che ha ucciso in carcere i suoi due figli non può che sconvolgere. Ma deve anche spingere a riflettere sui modi in cui la politica interviene attorno a tutte le questioni relative all’amministrazione della giustizia in Italia.
Tante le domande che affiorano alla mente, suscitate da un misto di sconcerto e sdegno: perché quei bambini erano in carcere? Come mai la loro madre, accusata di spaccio, era in stato di detenzione? Quale senso ha che il ministro della Giustizia, il grillino Bonafede, reagisca con la sospensione di alcuni funzionari, riconosciuti da tutti per la loro dedizione e il loro impegno nel gestire al meglio situazioni che innanzi tutto il legislatore ha reso quanto mai difficili? Perché il responsabile del dicastero si guarda bene dal compiere una approfondita disamina dei criteri che lo hanno ispirato sinora?
Come ha ricordato Rita Bernardini, già oggi i bambini di età inferiore ai tre anni non dovrebbero mai trovarsi in carcere, essendo previsto per loro l’inserimento in case-famiglia che però nel Lazio sono una chimera. Ancora una volta a essere criminogeno è il comportamento delle istituzioni, che sistematicamente viola le norme che esse stesse emanano.
Di questo dovrebbe interrogarsi un ministro della Giustizia, anziché preoccuparsi soltanto di assecondare le istanze della corporazione giudiziaria, sempre gelosa della propria assoluta discrezionalità anche a scapito del buon senso, o di cavalcare il giustizialismo becero invocando una fantomatico quanto insensato ricorso alla galera. Proprio l’assenza di criteri liberali nelle proposte di intervento sin qui adottate ha determinato la bancarotta del diritto nel Paese, che generalmente percepisce quanto sia controproduttiva l’amministrazione della giustizia.
E i criteri liberali di una sua riforma non possono che caratterizzarsi per una drastica riduzione dei margini di arbitrio degli operatori e per una revisione profonda delle logiche che hanno presieduto alla valutazione dei reati e delle pene. Esattamente quanto hanno evitato di fare a Via Arenula, sia quando vi erano i ministri dei precedenti governi e sia oggi che vi siede un esponente del Movimento 5 stelle.
Non si vede infatti alcuna inversione di tendenza, ma ancora una volta si assiste all’abdicazione della politica nell’occuparsi della questione giustizia. Anche se possono sembrare differenti le ispirazioni di fondo, non muta questo carattere di fondo dell’azione ministeriale: manca cioè una chiara volontà di intervenire con una “politica giudiziaria” che rimodelli complessivamente l’organizzazione e si adegui alle nuove condizioni ed esigenze presenti nel Paese.
Il centro-sinistra ha varato una serie di depenalizzazioni, impostate tuttavia sulla base del principio fallace relativo alla pena comminata anziché sulla tipologia dei reati commessi, per cui l’effetto è stato che ladri, scippatori o violenti restano – anche se perseguiti – a piede libero, perché l’art. 131 bis lascia la facoltà al magistrato di escludere la punibilità per reati puniti con meno di cinque anni.
Oggi, dal governo in carica si punterebbe invece a inasprire le pene e il regime carcerario, ma in entrambi i casi non si centra affatto l’obiettivo di garantire maggiore sicurezza, né tanto meno procedure più veloci e giuste.
A non cambiare è l’intelaiatura, la frame, dell’eventuale intervento riformatore che manca di considerare ad esempio il peso sociale di certi crimini, particolarmente odiosi ma di fatto puniti lievemente, conservando la sostanziale sudditanza ai diktat corporativi, che rivendicano un potere discrezionale che è all’origine della perdita di credibilità del nostro sistema giudiziario agli occhi della gran parte dei cittadini.
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