“Lo spettacolo è finito. Dovete farvene una ragione. L’ultima volta è dovuto venire l’esercito per mandarvi via”. Così Antonio Rezza a un pubblico che si spella le mani nella speranza di un’ennesima ripresa dello spettacolo, un ultimo sketch o almeno una delle sue surreali aggressioni alle malcapitate prime file. Non lo vogliono lasciar andare via. Gli spettatori non sono mai sazi. L’antologia proposta da Antonio Rezza e Flavia Mastrella ai Giardini della Filarmonica di Roma appare come la parodia di una sintesi epistemologica delle sperimentazioni selvagge che hanno contraddistinto la loro ormai lunga carriera.
Il brivido è inevitabile: come può un’antologia risultare imprevedibile? Rezza e Mastrella riescono in questo ossimoro, portando sul palco un carosello così eterogeneo ed iconoclasta da risultare l’esatto opposto di una stanca esposizione delle vecchie glorie.
I topoi sono tutti presenti. L’ironia dissacrante, la trasfigurazione del volto e del corpo, lo spazio irreale, più che surreale, che dà vita al dramma e non viceversa, come entrambi gli autori tengono a sottolineare. “Habitat”, lo chiamano, in netta contrapposizione con la scenografia che nasce da un copione già scritto. Qui accade invece il contrario. Le battute e l’azione nascono da un mondo che già in origine disegna una dimensione parallela. In questa dimensione, la vita che si sviluppa è qualcosa che ricorda l’esistenza per come la conosciamo, ma al tempo stesso la nega, la deride, la esaspera. Proprio come un universo alternativo o, più semplicemente, un sogno. È questo il segreto dello straordinario successo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella? Un pubblico che non vuole a nessun costo lasciare un’esperienza tecnicamente, e non simbolicamente, onirica?
Il Rezza che vaga tra i frammenti di “Fotofinish”, “Bahamut”, “Pitecus”, “7 14”, “Io” è perfino più onirico dello stesso protagonista che conduceva il flusso di coscienza degli spettacoli integrali. Puntella le sue rovine con i suoi stessi frammenti, mostrandoci un territorio in espansione. Questo flusso tra i flussi, come la corrente principale di un torrente che vaga tra le sue stesse ramificazioni, non lascia allo spettatore altra scelta: deve abbandonarsi, lasciarsi trascinare. Si smarrisce nei vuoti e si esalta nei pieni, in una stridente e continua reazione bipolare scatenata dalle matematiche alternanze sinfoniche della marea governata da Rezza.
Ora è chiuso dentro un grattacielo di un metro. Illustra i vantaggi per la sicurezza che una simile costruzione rappresenta. Perfino nel caso di una pallonata, la torre non può crollare. Un momento dopo si scatena in un amplesso furioso con il “collega” Ivan Bellavista. La forsennata corsa erotica si trasforma rapidamente in un romantico incontro carico d’atmosfera. La musica distesa circonda i due amanti: Rezza offre alla sua metà un’infinita serie di pomodori, che il compagno stoicamente e convulsamente divora. I pomodori che condividono finiscono presto fra le mani del pubblico in prima fila. Ed ecco che Rezza è il primo artista della storia che lancia i pomodori a un pubblico che applaude!
In questa serrata serie di paradossi, nell’inarrestabile inversione delle parti, negli sdoppiamenti e quadruplicazioni della personalità e dell’immaginario, gli astanti stessi attraversano una esilarante e dolorosa frammentazione. Non è eccessivo affermare che si esce da uno spettacolo di Antonio Rezza conoscendo ancora meno lui e un po’ di più se stessi.
INTERVISTA AD ANTONIO REZZA
Allora, partiamo dall’esibizione di stasera. Parlaci un po’ di questo spettacolo…
A. Rezza: Questo non è uno spettacolo nuovo, l’abbiamo realizzato nel 2010 per il Garofano Verde, per gli scenari di teatro omosessuale, quindi è l’unione di tutti i pezzi che abbiamo sviluppato in vent’anni di attività che hanno a che fare con l’omosessualità e/o il travestitismo - quando io mi vesto da donna e faccio la donna! È uno spettacolo a tema, fatto per quell’edizione del Garofano Verde che poi abbiamo portato anche in giro, però non è un collage dei nostri pezzi migliori, è più un’antologia di tutte le volte che abbiamo parlato di questa tematica da “Pitecus” a “Io”, “Fotofinish”, “Bahamut” e “7 14”.
Vuoi dirmi due parole sui vostri esordi che, come avete raccontato, sono stati faticosi, non immediati? Una volta hai detto che andavate in onda di notte come i pornografi. Avete avuto difficoltà a trovare i teatri con questi spettacoli innovativi?
A. Rezza: Mah…io non credo che abbiamo mai trovato difficoltà, cioè, noi ci siamo cercati le difficoltà. Quindi non le abbiamo trovate. È normale che sia difficile per chi rifiuta qualsiasi compromesso in modo epidermico, non intellettuale, e quindi che trovi più difficoltà. Mi sembra normalissimo. Quindi, se abbiamo mai trovato difficoltà, adesso più passa il tempo più penso che non ne abbiamo trovate perché ce le siamo scelte. Quindi era una libera scelta essere in difficoltà…che non può essere difficoltà!
E sull’importanza della scenografia, di questa vostra collaborazione? Insomma avete spesso raccontato di come esista questo spazio vitale che si crea e in cui si innesta il corpo... ecco, com’è nata, come si è sviluppata la vostra collaborazione?
A. Rezza: Innanzitutto non è scenografia perché la scenografia presuppone una drammaturgia alla quale poi asservirsi. Flavia realizza questi spazi per sé, quindi non può essere un allestimento scenografico perché nascono come opere a sé stanti che poi vengono esposte anche nelle gallerie d’arte contemporanea. E nascono prima di ogni spettacolo. Quindi è un habitat sempre diverso che crea Flavia dove io poi vivo un anno e creo la parte diciamo non scritta dello spettacolo, non scrivendolo. Però è fondamentale che si capisca che non è una scenografia, che è serva poi della regia, della drammaturgia insomma. È un contorno. Qui l’allestimento, l’habitat, detta il movimento quindi è co-partecipe.
Quindi il processo è inverso! Prima nasce lo spazio e poi nasce lo spettacolo…
A. Rezza: Sì, come nel caso dell’uomo. L’uomo è nato dopo lo spazio. Poi noi abbiamo cercato di far credere che l’uomo sia più importante dello spazio, ma l’uomo viene dopo lo spazio - non che io venga dopo lo spazio di Flavia perché io non sono un uomo, io sono disumano. Quindi vengo nello stesso momento in cui c’è lo spazio. Cioè noi siamo uguali, disumani entrambi.
Ecco, a proposito di questo, sia nei testi degli spettacoli che nel tuo romanzo “Non cogito ergo digito” traspare molto la ricerca dell’Io, la dicotomia con la maschera, ecc. Puoi spiegarmi meglio questo concetto?
A. Rezza: I primi allestimenti di Flavia erano quelli che vedrete stasera, cioè i quadri di scena dove esco con le braccia, le gambe, e sono il contrario della maschera perché lasciano solo la faccia scoperta e coprono tutto il resto del corpo. La critica ci consigliava di continuare su questo discorso, questo teatro di genere, continuare tutta la vita con i quadri di scena. Chiaramente noi, che non seguiamo nemmeno quello che facciamo noi stessi, figuriamoci se possiamo seguire i consigli di una critica che voleva padroneggiare meglio quello che facevamo. E quindi gli spettacoli sono ogni volta un abbandono della strada che funziona per la ricerca d’una strada incerta.
Però c’è un aspetto comico nel vostro lavoro che è molto caro al pubblico che vi segue…
A. Rezza: Beh, a me piace tantissimo far ridere, perché il riso è più demoniaco dell’attenzione, della concentrazione. Penso che sia più perverso. Quindi mi piace far ridere però ogni volta in modo diverso. Per esempio stasera c’è il pezzo di Saverio, ci sono le prime cose con i quadri di scena e c’è “Mantegna” che è un pezzo del 2009…insomma il linguaggio cambia. Il pubblico ride sempre per motivi diversi e sempre in modo più frenetico, muovendosi sempre più sulla sedia. Credo che sia diventata una droga per me, pur non essendo un comico, vedere il pubblico che si muove mentre ride. È più un’esigenza di vedere di fronte un corpo satanico che è quello di questa massa disorganizzata. Massa non in senso dispregiativo perché senza l’energia del pubblico io non andrei nemmeno sul palco! C’è questo miracolo massiforme che si verifica ogni sera. Io non potrei mai dire che provo disprezzo per il pubblico, non credo che sia inferiore come entità a chi sta sul palco. Quando ciò che sta sul palco è di altissima levatura, il pubblico riesce a raggiungere lo stesso livello. Non tecnico, ma energetico.
Proprio sul concetto della massa che tu hai citato varie volte, sia in quest’ottica che stai citando adesso del rapporto col pubblico ma anche l’idea dell’ammutinamento della massa, della massa contrapposta all’individuo, vorrei chiederti qual è l’aspetto, diciamo, anche politico del vostro lavoro?
A. Rezza: In generale la contrapposizione frontale a qualsiasi tipo di istituzione, un modo viscerale di essere e non perché uno abbia creato o codificato un dogma per essere contro le istituzioni. Noi cioè non vediamo…io non vedo, l’esistenza del potere, non considero il potere, non mi rapporto col potere. Non mi interessa che esista, non lo calcolo. Non influisce minimamente sul lavoro che facciamo. Non siamo liberi nel senso che nessuno può esserlo completamente, ma siamo liberi da questo rapporto clientelare col potere. Non ci riguarda proprio! Nessuna manifestazione, neanche pseudo-politica, ci riguarda.
Un’ultima domanda: voi avete sperimentato varie forme d’arte, la gente poi vi riconosce sebbene si tratti in realtà di forme d’arte molto diverse. Due parole magari sui film ”Escoriandoli”? Com’è stato, proprio a livello d’esperienza, rapportarsi con gli attori? E che è successo durante la lavorazione di “Delitto sul Po”?
A. Rezza: Sono due film completamente diversi perché “Escoriandoli” è un film istituzionale, cioè fatto con un produttore, con una troupe regolare di 30/40 persone, e siamo riusciti a fare il film che volevamo anche se i modi sono stati diversi rispetto a quando giriamo noi. Cioè noi lasciamo che l’opera si sedimenti, magari giriamo un film oggi e lo montiamo tra 6 anni. E continuiamo a montarlo nel tempo in modo che si faccia da sé sfuggendo al controllo dell’autore. Lì c’era un film da realizzare in determinati tempi ed è stato fatto per portarlo a Venezia. Poi, è stato molto lavorato prima, con gli storyboard, ecc. Flavia ha disegnato tutto il film, avevamo tutto fatto insomma…anche se poi abbiamo fatto anche l’opposto del tutto che avevamo preparato.
Invece il rapporto con gli attori, con la troupe, com’è andato, come si è sviluppato?
A. Rezza: Beh, sono passati 17 anni, che dire? Abbiamo lavorato con gli attori perché non siamo razzisti quindi lavoriamo anche con gli attori. Li abbiamo fatti diventare i nostri attori, ci interessava questa dimensione diversa, perché poi si lavora bene quando si ha una troupe. Inoltre è l’unica esperienza che abbiamo fatto in 35 mm e credo che adesso, con il cambio di formato, nessuno girerà più in 35 ma resterà per me quell’emozione dei giornalieri. È giusto averla provata una volta e rimane così…
E invece la storia di “Delitto sul Po”?
A. Rezza: “Delitto sul Po” venne fatto per la televisione, era un micro-sceneggiato da 30 secondi a puntata – in cui durava più l’attesa che lo sceneggiato. Purtroppo non venne accettato e quindi è diventato un film. Cioè, purtroppo… semplicemente non venne accettato quindi è diventato un film con le pause nere in mezzo che rendono il montaggio meno esasperante.
INTERVISTA A FLAVIA MASTRELLA
Puoi dirmi due parole sempre su questo spettacolo, dal tuo punto di vista?
F. Mastrella: È una compilation! Sono i pezzi migliori di tutti i lavori fino a “7 14” che parlano del travestitismo…
Sì, ma approfondiamo un attimo il discorso sullo spazio, che con Antonio abbiamo voluto soltanto toccare in questo senso, cioè il discorso di come nasce l’habitat, ecc. questo spazio che tu crei e da cui poi nasce lo spettacolo. Lui giustamente sottolineava come sia in contrapposizione con la scenografia che nasce dopo il dramma…
F. Mastrella: Sì, perché noi siamo due che fanno contaminazione, non facciamo teatro!
Cioè esattamente?
F. Mastrella: Contaminazione significa arte contemporanea insieme a performance del corpo. Praticamente io cercavo un corpo e Antonio cercava uno spazio e ci siamo incontrati…
E com’è nata, come si è sviluppata questa vostra collaborazione nel tempo?
F. Mastrella: Nel tempo diciamo che è diventata sempre più complessa e semplice! Complessa perché i neuroni sono entrati completamente in comunicazione e semplice perché non serve più neanche parlare troppo…il che è fondamentale: noi lavoriamo sull’energia, non lavoriamo sulla parola, sulla razionalità. Lavoriamo sulla spontaneità!
Come nasce l’habitat che tu crei, da cui poi - con Antonio - si sviluppa lo spettacolo?
F. Mastrella: L’habitat nasce da una ricerca a posteriori su una forma artistica, di scultura o di fotografia. “Fratto X” nasce da un lavoro di fotografia, praticamente imita il 3D, invece, per esempio, “7 14” nasce, di conseguenza a “Bahamut”, da un discorso di scultura con i giocattoli che si chiama “Dalle Sculture in Tasca a Bahamut”. È questo un lavoro col giocattolo perché io studio i giocattoli per scoprire quali saranno i temi delle generazioni future. Attraverso il giocattolo ho potuto capire l’evoluzione della generazione successiva. Perché adesso le generazioni sono più veloci e stanno molto meno in comunicazione tra loro.
Ecco, ci sono molti aspetti appunto anche psicologici, molto drammatici a volte nel vostro lavoro, però allo stesso tempo la gente ride! C’è un forte aspetto comico…
F. Mastrella: E certo, perché noi enfatizziamo il quotidiano ed enfatizzando il quotidiano hai il dramma della realtà oggettiva e il brutto, l’abitudinario in genere, suscita ilarità in quanto è la prigione d’ognuno.
Certo! E nel teatro il tuo lavoro traspare nel modo più evidente.
F. Mastrella: Io non posso parlare di “mio” lavoro perché il nostro lavoro è un blocco unico, non esiste una separazione! Noi lavoriamo in un modo completamente diverso dagli altri, mettendo ognuno le sue idee in gioco. Abbiamo così più punti di comunicazione. Esiste la comunicazione del colore, la comunicazione della forma, diciamo la comunicazione della forma congenita della psiche!
Questo processo creativo comune, che appunto nel teatro si vede in maniera così evidente, come si sviluppa, per esempio, nei cortometraggi?
F. Mastrella: È completamente diverso! I cortometraggi certe volte li abbiamo scritti, altre volte li abbiamo girati e poi ne abbiamo costruito la forma…variamo molto il lavoro nei video. Che ne so, “Escoriandoli” aveva uno storyboard e una sceneggiatura di ferro!
Sì, mi diceva Antonio che tu lo hai disegnato tutto…
F. Mastrella: “Delitto sul Po” invece nasce da due righe scritte e poi il resto è tutto improvvisato. È improvvisata la storia, improvvisata la ricerca dell’assassino, e le parole sono messe dopo.
E i corti come “Confusus”?
F. Mastrella: “Confusus” è il nostro primo kolossal! Non è proprio un corto, diciamo che è un kolossal girato in Hi 8 nel ’90, quando ancora non si parlava di film in digitale…
Quindi anche quello è stato la sperimentazione di una cosa nuova.
F. Mastrella: Certo, è stato una sperimentazione…visto che non avevamo la possibilità di girare in pellicola l’abbiamo fatto con quello che c’era. E non è stato scritto! Anche quello prima era una cosa e poi è diventato qualcos’altro. Lavoriamo così, cambiamo sempre metodo…per esempio poi abbiamo girato “Samp” che è un film on the road, dove sia la sceneggiatura che la location sono spontanee!
Tu come spieghi, visto appunto tutti questi continui cambiamenti, i cambiamenti di metodo, ecc. il successo dei vostri lavori?
F. Mastrella: È perché i nostri lavori parlano un linguaggio sempre d’attualità, nel senso che viviamo la nostra realtà profondamente. Come ti ho detto, io studio i giocattoli, studio tutte le forme di comunicazione che ci stanno e poi organizzo l’habitat. Non lo faccio a caso. È una cosa molto scientifica l’habitat!
Camillo Maffia e Gianni Carbotti
(foto di Gianni Carbotti)