Artisti molto creativi e desiderosi di libertà, per contingenze storiche avverse, sovente si trovano a operare in un paese opposto alle loro pretese, in uno scenario deprimente come quello che viene riproposto nella mostra “Tecniche d’evasione, Strategie sovversive e derisione del potere nell’avanguardia ungherese degli anni ’60-’70”, al Palazzo delle Esposizionidal 4 ottobre 2019 al 6 gennaio 2020.
Sono visibili oltre 90 opere dal Museo Ludwig arte contemporanea di Budapest: prevalentemente foto, ma anche collage, sculture, mail art, poesia visiva, libri di artista e video di interventi urbani, operazioni concettuali, performance, con la cura di Giuseppe Garrera, József Készman, Viktória Popovics e Sebastiano Triulzi. Mostra promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Crescita culturale, Azienda Speciale Palaexpo, National Cultural Fund of Hungary, organizzata da Azienda Speciale Palaexpo, Ludwig Museum–Museum of Contemporaryart of Budapest, Accademia d’Ungheria in Roma.
Prevalentemente foto, alcune delle quali propriamente artistiche e altre di carattere documentale, perché testimonianze di momenti ed eventi che non dovevano esistere, in quanto vietati dalla polizia, che però oggi, grazie al museo Ludwing ed a generosi collezionisti, abbiamo la fortuna di vedere a dispetto di quello che si dice dell’orientamento politico dell’attuale governo.
Endre Tót, Judit Kele, Sándor Pinczehelyi, Bálint Szombathy, András Baranyay, Tibor Csiky, Katalin Ladik, László Lakner, Dóra Maurer sono alcuni degli artisti ungheresi che, come dice molto eloquentemente il titolo della mostra, sono riusciti a eludere i controlli polizieschi per realizzare le loro opere di protesta: se volete, proprio il fascino del proibito espresso in inapparenti denunce di uno stato d’oppressione.
Strano è poi constatare che lo stesso fenomeno è avvenuto anche qui in Italia e nell’ Occidente, come se la libertà venisse negata alla stessa maniera. Insomma apparirebbe chiaro, se si volessero fare confronti, che solo da una parte della cortina di ferro non c’era la libertà e che molti artisti si sono offerti non per fare arte ma strumentale propaganda politica.
Effettivamente mentre da una parte si faceva più che altro un teatro che denunciava un male di cui nessuno ha pagato le conseguenze, dall’altra parte c’erano realmente la censura, i gulag, le uccisioni ecc., ovvero quelle pericolose persecuzioni che hanno causato migliaia di vittime effettive. Così, come nel caso del movimento d’avanguardia in Ungheria, se non volevi finire incarcerato la dissidenza clandestina era l’unica cosa possibile oltre ovviamente la fuga in Occidente.
Non sono atti espliciti, come viceversa si sono visti qui da noi quando i nostri artisti facevano azioni militanti e di partito con tanto di tessera ostentata e mettevano alla berlina gli USA per la guerra del Vietnam, ma azioni artistiche solo apparentemente innocue, il cui significato politico era da decifrare, da capire, ed effettivamente veniva capita da chi tra il pubblico era più attento e forse un potenziale dissidente.
Un’arte che ha al suo interno un lato nascosto. Artisti che, per sopravvivere in uno stato ostile, con astuzia hanno realizzato opere che potevano eludere i controlli e non cadere sotto la repressione poliziesca. Artisti ungheresi che volevano ma non potevano essere al passo con l’avanguardia che viveva oltre la cortina di ferro, ma che allo stesso tempo ci provavano come si vede, ad esempio, nella foto giustamente esposta di un barattolo di sugo ungherese che poteva essere quello della Campbell’s soup cans del 1962 di Andy Warhol.
Frustrazione di uno sviluppo culturale impedito dalle autorità che si traduceva in arte il cui significato alludeva a un mondo vietato. In sintesi, direi, una mostra scandalosa. Così Bálint Szombathy a Budapest dopo una manifestazione istituzionale del primo maggio, approfittandosi del fatto che finita la manifestazione tutti sogliono pranzare con birra e salsicce, prende un cartello di Lenin abbandonato dai manifestanti e se lo porta a spasso per le strade della città. Niente di speciale, mi direte, ma così facendo mostra se stesso ritratto nel degrado urbano di una città schiacciata dal potere sovietico, confermato dal titolo della foto, “Lenin a Budapest, 1972”. (Scusate la digressione, ma le condizioni attuali che i romani vivono a causa di una mala gestione del comune di Roma sono ben più vistose di quelle di Budapest del ’72).
Sándor Pinczehelyi più simbolicamente gioca con falce e martello, componendo con questi attrezzi di ferro dei curiosi se non ridicoli autoritratti come se fosse un pagliaccio in “Sickle and Hammer” del 1973, dove ovviamente non prende in giro se stesso ma il regime che usa tale simbolo. Così pure Gabor Attalai in “Negative star” del 1970-71 prende a soggetto la stella simbolo del partito per comporre giochi formali che esulano da quello che effettivamente e drammaticamente rappresenta.
Altri artisti e artiste fanno uso provocatorio della nudità corporea, altri di scritte sui muri o sulla neve, vengono usate persino azioni casalinghe nel giardino dietro casa, insomma tutto quello che l’ingegno riesce a produrre nella disperazione di una condizione impossibile da sostenere. Volendo fare paragoni, pensiamo alla campagna fatta in Occidente dall’arte militante che, per distogliere l’attenzione di quello che veniva fatto a Oriente, denunciavano oltre misura il male del capitalismo atteggiandosi a martiri.
La prova sta nel fatto che noi conosciamo oggi l’arte di oltre cortina a trenta anni dalla fine del muro di Berlino avvenuta nel 1989 e dall’inutile apertura del dossier Mitrokhin che finì insabbiato sotto la commissione di Paolo Guzzanti. Quello che avveniva oltre cortina era ben altro che i vittimismi degli artisti nostrani che godono di cattedre nelle accademie che non frequentano, di valutazioni stratosferiche delle loro opere in importanti musei o in prestigiose gallerie, che prendono consistenti cachet ogni qual volta appaiono in conferenze o in serate mondane.
Basti pensare che Gianfranco Baruchello, quello che vanta di essere stato un perseguitato, si ritrova una fondazione nel quartiere romano di Monteverde e una tenuta Agricola Cornelia S.p.A. alle porte di Roma nord di oltre mille metri quadri (non è facile rintracciare l’effettiva estensione).
Come a voler proseguire su un altro piano il percorso della recente storia tracciato ultimamente dalle mostre Party Politics di Francesco Vezzoli alla Galleria Giuliani ed Arte e regimi 1960-1990 alla galleria Mascherino, queste Tecniche d’evasione al Palazzo delle Esposizioni vanno a completare il quadro di come possa la politica influenzare l’arte.
È indubbio il fatto che essere in uno stato democratico pluralista è cosa molto differente dal vivere in quegli stati totalitari dove la democrazia è negata totalmente. Ci tengo molto a dirlo perché oggi viviamo un’atmosfera di auto colpevolezza surreale alla “Greta”, dove pare che stiamo nel peggior posto del mondo. Anche se mi riconosco nelle critiche ai sistemi democratici, nei valori ambientalisti e ho le stesse premure per la salvaguardia del pianeta, mi preme ricordare che le democrazie al mondo sono molto poche e deboli, precarie e decadenti, tutte concentrate nell’emisfero occidentale, mentre il resto, cioè quasi tutto il pianeta, è sotto regimi autoritari corrotti, sanguinari e bellicosi, molti addirittura tribali, che sono causa del divario economico e dell’enorme sofferenza sociale della maggioranza degli abitanti del mondo.
L’Ungheria, che è stata tra i centri della cultura mitteleuropea, ha fortunatamente potuto affrancarsi e reagire al peso di una coercizione dispotica quale è stata l’appartenenza al blocco sovietico, ma che dire di tutto il resto del mondo?
Tecniche d’evasione
Strategie sovversive e derisione del potere
nell'avanguardia ungherese degli anni '60 e '70
a cura di Giuseppe Garrera, József Készman, Viktória Popovics e Sebastiano Triulzi.
4 ottobre 2019 - 6 gennaio 2020
Palazzo delle Esposizioni
Roma
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