Ricorre l’anniversario della morte del “più grande rivoluzionario di tutti i tempi” che l’iconografia artistica abbia mai conosciuto. Un’icona che ha accompagnato l’immaginario collettivo di un popolo rivoluzionario come non mai ma, é qui il suo aspetto più curioso, decontestualizzata e proposta con fini diversi da quelli di quando fu eseguita. Parlo di quell’immagine riprodotta in maniera seriale con gli stencil o in serigrafia di Che Guevara.
Come ben sappiamo si tratta dell’argentino di origini irlandesi, da parte di madre, Ernesto Guevara Lynch (Rosario 14 giugno 1928-La Higuera, 9 ottobre 1967) meglio conosciuto come El Che o semplicemente Che, nomignolo affibbiatogli proprio da coloro che venivano chiamati da lui in questo modo quando non conosceva il nome di chi si rivolgeva, consuetudine che gli è valso il nome. Che dalla lingua Mapuche vuol dire uomo, signore, appellativo equivalente per tutti, come “ehi tu”, ma che è diventato addirittura il nome ufficiale con il quale Ernesto Guevara firmava documenti importanti, come le banconote cubane al tempo in cui fu direttore della banca, che portano scritto “Che”.
L’icona popolare del famoso rivoluzionario prende origine da due scatti fotografici (uno orizzontale e uno verticale) eseguiti all’Avana nel 1960 da Alberto Korda (Alberto DíazGutiérrez, Avana 14/09/1928- Parigi 25/05/2001) che immortalò Che con una Leica come “GuerrilleroHeroico” durante il funerale per le circa cento vittime dell'esplosione della nave Coubre, con una Leica, un episodio oscuro e controverso di cui non si sanno esattamente gli autori.
Il successo planetario venne conquistato quando questa foto fu usata nel 1967 dall’editore Giacomo Feltrinelli scontornata come poster, che poi fu affisso per le vie di Milano, e ancora nel 1968, come copertina di Diario del Che en Bolivia, che nelle edizioni successive vediamo simile a quella che non a caso fu usata anche da Andy Warhol.
Nel ’68 destava molta curiosità la scritta gigantesca che appariva sui muri “Che” o “Che vive”, nonché quella che era meno criptica “hasta la victoria”: lettere dipinte per strada, frasi che diventavano pubbliche, che sono diventate un tema per artisti come Lawrence Weiner.
Queste scritte si conquistarono il proprio spazio nell’immaginario collettivo con la forza iconica del segno più che del vero significato. Il Che con le sue foto e i suoi slogan divenne un brand della rivoluzione permanente, dirompente per il movimento politico e non solo, un segno di speranza, una fuga giovanilistica dalla consuetudine, una sorta di meta-status simbol.
Da questa immagine abbiamo magliette, cappelli, poster, bandiere e innumerevoli forme di riproduzioni che alimentarono il mito sino a fare di Che Guevara “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi” proprio per il geniale riuso degli scatti d’autore che si è fatto ed in particolare della soluzione grafica della foto di Korda, al punto da sembrare una specie di marchio, un logo.
Il virgolettato è d’obbligo perché designa una immagine consumistica, come il Pop di Andy Warhol, ma anche per la falsità intrinseca al messaggio pubblicitario, in quanto di rivoluzionario rimangono solo tristi e controversi ricordi, che inspiegabilmente acquistano un fascino coinvolgente nell’immagine ri-creata come icona, che viene usata come quella di un cantante o di un giocatore di calcio, che adornava le stanze dei sessantottini, e ancora adorna le stanze dei loro figli, a quel tempo non ancora nati, per i quali essa resta tutto quello che conoscono della rivoluzione.
Un fenomeno popolare puramente estetico che si è sovrapposto alla storia e dura ancora e chissà per quanto durerà; una traslazione dal vero all’inverosimile che non ha paragoni in altre elaborazioni grafiche. Forse l’unico paragone è il viso di Marilyn Monroe nella rielaborazione di Andy Warhol che alla fine ha soppiantato le tante foto in cui la diva appare bellissima e viva, e che non avrebbe avuto senso se non avesse fatto quella triste e prematura fine.
Certo è che quella sagoma nera di un viso con barba dai capelli lunghi col basco su fondo rosso è così indovinata che fa invidia a tanta professionalità pubblicitaria che difficilmente riesce a produrre realizzazioni di tale efficacia. Eppure quello che non si sa è che la sua piacevolezza dipende dall’espressione di una personalità molto orgogliosa che è stata causa della sua stessa rovina, perché il vero Che ben poco riusciva a legare con i suoi stessi compagni di lotta con i quali prima o poi andava in rotta di collisione.
Quel suo piglio piccolo borghese e di quell’intemperanza politica che lo allontanò da Fidel Castro con il quale doveva dividere il più grande successo raggiunto è più visibile in quel ritratto che nelle spiegazioni che ci hanno dato gli storici.
Un viso che non ha una vera collocazione storica, ambiguo perché è segno di gloria come di grande sconfitta. Un’immagine simbolica che ha fatto epoca e che rivestirà il sogno di una rivoluzione che resterà per sempre un’utopia, che sembra possibile e palpabile solo a guardarla, proprio come (se mi si passa il paragone) quella di Gesù Cristo nei santini.
Il Che Vive! Ernesto Guevara e L’America Latina
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