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22/11/24 ore

È solo un inizio. 1968


  • Giovanni Lauricella

È solo un inizio.1968“, a cura di Ester Coen, titolo che traduce “Ce n'est qu'un début” lo slogan insurrezionale del maggio francese, diventa il tema di una collettiva degli artisti di quel tempo: Vito Acconci, Carl Andre, Franco Angeli, Giovanni Anselmo, Diane Arbus, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Carla Cerati, Merce Cunningham, Gino De Dominicis, Walter De Maria, Valie Export, Luciano Fabro, Rose Finn-Kelcey, Dan Flavin, Hans Haacke, Michael Heizer, Eva Hesse, Nancy Holt, Joan Jonas, Donald Judd, Allan Kaprow, Joseph Kosuth, Jannis Kounellis, Yayoi Kusama, Sol LeWitt, Richard Long, Toshio Matsumoto, Gordon Matta-Clark, Mario Merz, Marisa Merz, Maurizio Mochetti, Richard Moore, Bruce Nauman, Luigi Ontani, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, Mario Schifano, Carolee Schneemann, Gerry Schum, Robert Smithson, Bernar Venet, Lawrence Wiener, Gilberto Zorio, con opere  dalla collezione della Galleria Nazionale di: Gianfranco Baruchello, Daniel Buren, Mario Ceroli, Christo, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Eliseo Mattiacci, Pino Pascali, Andy Warhol.

 

Accompagna la mostra il Giornale-Catalogo “È solo un inizio. 1968” con il testo di Ester Coen e interventi, tra gli altri, di: Franco Berardi (Bifo), Achille Bonito Oliva, Luciana Castellina, Germano Celant, Goffredo Fofi, Franco Piperno, Rossana Rossanda, Lea Vergine, a cura di Ilaria Bussoni e Nicolas Martino. Una kermesse che ha visto numerosi personaggi famosi che hanno fatto interventi o che si sono mescolati tra il pubblico, un vero successo organizzativo.

 

Che nella storia dell’arte non esista l’arte del 1968 penso sia ben chiaro a tutti: in questa data si fa confluire tutta una concezione movimentista che può avere nel ’68 una data di riferimento di un acuirsi delle lotte sociali, donde una fiammata che si propagò da Parigi a gran parte dell’Occidente.

 

Come tutti sappiamo, abbiamo avuto la famosa centralità operaia, “operai” nei licei, “operai” nelle università ecc.  come abbiamo avuto “operai” negli atelier che rivendicavano il ruolo sociale dell’arte.

 

Anzi, a dire il vero, si diceva che l’arte era una sovrastruttura che distoglieva il proletariato dalla lotta … e già da qui il mistero di tanti artisti che erano politicamente schierati ma allo stesso tempo ingiustificabili per le loro stesse pretese.  In più una cospicua parte nichilista degli artisti definiva l’arte ormai conclusa, morta, concetto suffragato anche da importanti pensatori. In quel tempo si sosteneva che ormai si era fatto tutto, che l’arte si era esaurita e che non c’era più niente da fare: gli addetti ai lavori avevano decretato senza mezzi termini la morte dell’arte, la fine della creatività occidentale.

 

Tutti gli artisti degli anni ’60 discutevano animatamente sull’acquarello astratto di Kandisky già compiuto nel 1910, del Quadrato nero su fondo bianco di Malevich, del ready made di qualche anno più tardi, di Mark Rotchko che dipingeva quadri con un solo colore ... cosa si poteva fare di più estremo? Se lo chiedevano allora.

 

Chi avesse avuto la fortuna di assistere ad una performance di Cesare Tacchi quando da dietro un vetro che man mano dipingeva copriva la sua figura fino a scomparire, non avrebbe avuto più dubbi sul futuro corso dell’arte: infatti l’opera così si chiamava “cancellazione d’artista”(1968, galleria la Tartaruga), e il suo messaggio era chiaro ed esplicito, con la fine dell’arte sarebbe scomparso tutto, anche gli artisti.

 

Niente di più falso. Negli anni a seguire abbiamo riscontrato tutto il contrario: gli esponenti delle cosiddette avanguardie si sono trovati dentro quello che si doveva distruggere, cioè le accademie, intenti a conquistare cattedre sempre più prestigiose ed a fare carriere istituzionali, mentre il mercato dell’arte da che era il nemico da abbattere è esploso sino all’inverosimile con una lievitazione delle quotazioni tale da creare la bolla speculativa. In più addirittura si è creata la musealizzazione dell’arte contemporanea, una contraddizione in termini che è anche vanto architettonico delle città culturalmente più importanti.

 

Non voglio fare una critica al movimento operaio e nemmeno alla mostra allestita al museo d’arte moderna e tanto meno a chi ne avuto la cura che anzi sono riusciti a fare un vernissage notevole, degno di un grande evento, me la voglio prendere con chi ha le redini in mano di storicizzare la cultura.

 

Secondo me non è un caso che si continui a fare l’arte ad episodi (come questo del ’68) perché non c’è una versione veritiera su tutto il fenomeno dell’arte contemporanea ed i primi che dovrebbero fare chiarezza sono quelli che opportunisticamente si nascondono. Non sono nemmeno pochi ma, quando hai a che fare con loro, difficilmente la spunti perché si mettono dalla parte di quelli che sono i depositari della verità, gli unici che hanno il mandato culturale di tale materia.

 

Parlo degli storici e dei critici d’arte, monopolizzatori del pensiero moderno che ti lasciano senza le necessarie conoscenze per capire il susseguirsi degli eventi, perché, come diceva Jean Baudrillard, “bisogna temere la trascrizione”. E così hanno fatto, ma molto meglio sarebbe stato il contrario, e qui concludo con la frase emblematica di Gilles Deleuze presa a riferimento dalla curatrice: «Lo abbiamo sempre saputo che sarebbe finita male».

 

  

È solo un inizio. 1968

a cura di Ester Coen

Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea

Roma

 

 


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