di Maurizio Musu
Fratello grande (edizione E/O, 2019, traduzione di Yasmina Mélaouah) di Mahir Guven, esordiente, ma subito affermatosi come vincitore del Goncourt nel 2018, racconta la storia di due fratelli nati e cresciuti in Francia, da madre morta precocemente e da padre tassista legato al sindacato, serissimo e obbediente alle leggi del paese che lo ha accolto, prendono strade opposte.
La narrazione di questa storia che scorre come un fiume in piena, spesso senza filtri e senza alcuna continuità narrativa, quasi ci trovassimo davanti ad un grande flusso di coscienza, viene affidata ai due fratelli, appunto fratello grande e fratello piccolo.
Particolare non da poco, l’autore non fornisce i nomi dei due personaggi così almeno fino alla fine della storia; vengono sempre descritti come fratello grande e fratello piccolo o al più viene utilizzato qualche soprannome.
Il romanzo, ambientato fra Parigi e Damasco, è un dialogo intimo fra due mondi mai così diversi, uno liberale, l’altro integralista.
Un dialogo che si inscena su una dialettica colloquiale, ricca di slang e parole spesso solo accarezzate attraverso immagini forti e decise che si dipanano nelle sequenze di pagine sempre più intime, umane, dolorose e seducenti; non c’è mai un sottointeso, tutto è verbalizzato in modo chiaro e sintetico.
In questa inusuale relazione a due emergono, disagi, difficoltà, rabbia, imprecazioni di stampo sociale che investono non solo i due fratelli e le due città ma un quadro d’insieme più ampio e universale.
Lentamente emergono, dai vissuti dei due protagonisti, gli annosi drammi umani dei rifugiati, e dall’altra le difficoltà Politiche e sociali, dei paesi ospitanti. Di questa festa riuscita a metà gli abiti indossati dai due protagonisti diventano specchio di una scelta mai corretta.
Smoking da una parte, camice dall’altra evidenziano una deriva privata e corale di una generazione mai realmente riconosciuta.
Da un lato si legga la forza di una famiglia per essere riuscita a fuggire nei primordi della guerra civile, la Siria, dall’altra un Paese – la Francia – che accoglie e marginalizza i suoi nuovi abitanti nei quartieri periferici intrisi di dinamismi culturali e ribellioni sociali che mal vengono recepiti dalle istituzioni.
In questa Parigi a due velocità e due realtà le vicende dei due fratelli rappresentano l’ossimoro di una contemporaneità mai così gravida di richieste disattese e dalle conseguenze ancora tutte da valutare e definire nei futuri libri di sociologia.
Mahir Guven è bravo nella sua scrittura a far emergerecon grande intensità le difficoltà di un tempo storico conflittuale su ogni latitudine, Parigi e Damasco in questo accolgono, raccolgono e rispondono - a loro modo e secondo scelte non mai arbitrarie – alle esigenze di una umanità richiedente identità e riconoscimento sociale.
L’identità diventa, giocoforza, l’asse attraverso la quale uno stato diventa amico o nemico, solidale e accogliente o delegittimante e respingente.
Sullo sfondo di un dialogo fra i due fratelli avanzano inesorabili le cicatrici di una Politica troppo spesso avulsa dalle esigenze umane, ma più incline, come nel caso siriano, ad una lotta armata per la difesa del proprio sistema socio-culturale.
Per questo la Siria, nella figura del suo dittatore Assad, e di conseguenza attraverso un regime dittatoriale, diventa una madre accogliente di tutti coloro che sono, loro malgrado, esclusi ed emarginati socialmente nel paese ospitante.
Se nella Francia dei diritti e della libertà sei considerato uno straniero, arruolarti diventa atto legittimo e liberatorio. Se nella Francia del liberismo il tuo ruolo è relegato ad un marginale taxi o una divisa da infermiere, ribellarti diventa una necessità per mostrare la tua esistenza, oltre che una resistenza alla non-identità, a quel non essere delegittimante che da un lato ti esclude dall’altro ti include come guerriero della libertà e del riconoscimento.
Se nella Francia del libero pensiero, l’integralismo di stampo religioso, è una questione privata fino a quando non vengono inferti colpi durissimi alla sua capitale con gli attenti alla redazione di Charlie Ebdo e al teatro del Bataclan, allora e solo allora diventi Reale, esistente, Persona da perseguire ed isolare e non più cittadino da inserire nel contesto urbano
Tutto si trasforma, tutto diventa Reale, dannatamente più Reale, così il dramma degli attentati sposta gli equilibri, la questione privata diventa una questione prima sociale poi culturale.
Entra in vigore lo stato di polizia e controllo! Insufficiente per frenare l’odio verso un paese ospitante che non ha saputo accogliere i suoi nuovi ospiti.
Emergono con forza e impeto le domande nelle lunghe pause di riflessione fra un cliente e l’altro del fratello grande, o quando immerso nel fumo di una canna e nelle sospensioni di una giustizia che lo costringe ad essere prima confidente poi delatore tossico di un sistema cieco.
Un sistema che promuove (a sua insaputa?), fondamentalisti religiosi e quindi sobillatori sociali.
Si lavora nei sotterranei di una città che non ha tempo di ascoltare, di capire e conoscere, o se lo fa guarda tutto come ad un fenomeno di ordine secondario.
Ma in quei silenziosi sobborghi si attivano figure di un nuovo ordine del mondo che vede in certi imam le nuove figure per il riconoscimento sociale e identitario.
In questo senso il malessere del fratello piccolo diventa testimonianza di una fuga verso una libertà paradisiaca ma che ben nasconde uno stato di cose ancor più tossico e malato quale è l’integralismo del jiad.
Le parole diventano una nuova arma in mano ai fidi dell’integralismo anti-occidentale, che vede in Parigi e nella Francia un capro espiatorio.
In questo caleidoscopio di immagini, parole, speranze e delusioni, Parigi e la Francia si riscoprono deboli, indifese e malate (come i due fratelli ora uniti e separati nelle loro quotidianità e visioni del mondo).
Malate di un silenzio che ha confinato nelle banlieu, sacche di individui ai quali non sempre è permesso integrarsi se non in ruoli marginali, ne è ricca la letteratura e la filmografia degli ultimi anni.
Parigi accoglie i nuovi guerrieri di una guerra senza confini.
La Francia e l’Europa si scoprono prigioniere di sistemi retributivi – socialmente parlando - delegittimanti e schiave del diritto di appartenenza che non sempre consente riconoscimento.
Fratello grande da un lato, fratello piccolo dall’altro, nella loro interazione vera o ipotetica che sia, mostrano il lato debole del sistema di accoglienza.
Due vite che si separano per sentieri e percorsi mai così lontani per le loro scelte individuali ma allo stesso tempo con destini mai così simili.
La fuga verso una vita in cui essere visti come esseri umani, e non più o non solo come profughi o peggio richiedenti libertà e asilo.
Perché leggere questo libro? Perché Fratello grande è un affresco sociale di stringente contemporaneità, per questo se ne consiglia la lettura. Mahir Guven ha una scrittura limpida, diretta, schietta, in questo romanzo che non fa sconti a nessuno ci si lega ai due protagonisti sentendoli e vivendoli con emozioni contrastanti ed allo stesso tempo quasi come fossero nostri fratelli, grande e piccolo.
È di sicuro un romanzo inquietante, per la grande forza delle vicende narrate e perché Guven ci racconta, da un punto di vista estremamente originale, cosa spinga questi ragazzi francesi – “non del tutto” -, le pressioni a cui sono sottoposti, le contraddizioni che vivono, gli sbagli che commettono, i sentimenti che si agitano nei cuori di persone sradicate, che non riescono ad essere padroni di loro stessi né nel luogo originario né nella patria d’adozione.
Buona lettura.
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