Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

25/12/24 ore

Zebù bambino poesie di Davide Cortese


  • Giovanni Lauricella

Davide Cortese si è cimentato in un nuovo libro di poesie che sbalordisce per complessità e sensazioni travolgenti: uscito per Terra d’Ulivi Edizioni, s’intitola “Zebù bambino”, ed è un poemetto sull’infanzia del diavolo. Sarà il primo volume della nuova collana di poesia “Deserti luoghi” curata da Giovanni Ibello. Il libro si pregia della postfazione del poeta Mattia Tarantino ed è dedicato al poeta Gabriele Galloni, prematuramente scomparso lo scorso anno a soli 25 anni.

 

Sono scenari infantili con una rima zompettante come quella che si sente nelle recite dei bambini, ma gli echi sono tenebrosi, grazie a un linguaggio che a quella ripetitività automatica e spontaneità meccanica tipica di un posseduto dal diavolo va ad aggiungere un’atmosfera decisamente dark. 

 

A fare una recensione seria si dovrebbe spiegare come mai il poeta Davide Cortese sia approdato a simili linguaggi e atmosfere; ci ha pensato Mattia Tarantino nella dotta postfazione, a districarsi tra le ventuno filastrocche talmente irriverenti da trovarsi anche lui, come il poeta Davide Cortese, sulla “soglia” del confine del dicibile.

 

Nella stupenda e davvero molto colta postfazione, con il titolo Factum loquendi, Strumentario «per vedere il buio pesto», ci dice il poeta Mattia Tarantino:  “Al poeta – lo scomunicato, il balbuziente, l’insonne che veglia – non resterà che dire, allora: «Scoccano insieme/ la mezzanotte e il mezzogiorno».

 

È la visione di Zebù, il bambino con le ali «da angelo randagio» che inganna il tempo a dadi, tempo di cui è ancora impossibile dire «How […] has ticked a heaven round the stars». Zebù, satira – satiro – della parodia, che dà fuoco agli angeli perché anneriscano, che «Tira le trecce a Maria, sua madre» giocando alla storia di Cristo tentando – attentando – la soglia, lo strano nesso, tra volontà e immaginario («Vuole un sole che non sia giallo./ Vuole andar piano ma arrivare presto/ accendere la luce per vedere il buio pesto»), è la figura di una ninna-nanna che buca il paradosso: che lo buca – e, per questo, vi si sottrae – proprio perché proviene da quel punto in cui il conflitto fugge dalla forma che gli abbiamo attribuito e fuggendo – slittando – indica un’altra via, qualcosa come un torrente appena sotto la struttura, annuncia una ricreazione, (Non vuole saperne d’a, e, i, o, u./ Ama la ricreazione/ il piccolo Zebù) l’inizio di un’altra Settimana e di un Giudizio ancora dove il linguaggio finisce di iniziare e non inizia – ristabilendo e dissimulando continuamente questa stessa simmetria – mai a finire.

 

Come nella pseudocabala di Zanzotto («dài baranài tananài tatafài,/ sgorlemo i sissi missiemo i sonai»)[8] il linguaggio si fa factum loquendi, mero-fatto che si parli. Zebù, angelo del logos – e del logos stravolto, guarda l’Abgrund e ripete più volte e tentennando, come un rito che non riesce a ricordare, Nir-Garten: può parlare a ancora, e ancora può morire. Come coloro che «Dall’abisso tendono mani/ che già non si vedono più».

 

Un turbinio di giochi di parole a cadenza rimata che ti porta lontano in mondi fantasiosi, metafisici, onirici, qualcosa che sa d’altrove.  Incredibile perché il pretesto di queste poesie è un bambino e il mondo che gli ruota intorno.

 

Volendo, questa poetica è un’analisi scioccante e provocatoria del mondo infantile e una proiezione dissacrante di quello che è l’uomo. Sono poesie che a mio avviso, pur nella sua stranezza, indagano sconosciuti aspetti dell’infanzia. Tutte le forzature di linguaggio di scenari e rappresentazioni sono forse i travagli di un bambino cui è sottoposto per colpa dei grandi. Insomma ci troviamo in una nuova lettura del mondo visto da quell’altezza che un bambino ha, ovvero dal basso, con tutte le contraddizioni e le difficoltà che si possono avere a quell’età.

 

Poesie visionarie che secondo me si rifanno a una narrativa oscura, gotica, che, forzata, ancora potrebbe arrivare a un effetto di horror filmico (almeno a me è venuto in mente il bambino sul triciclo di Shining), anche ovviamente se le poesie di Davide Cortese mirano a tutt’altra meta. Forse a messaggi diretti agli adulti assediati dal demoniaco quotidiano?

 

 

Zebù bambino 

poesie di 

Davide Cortese 

Deserti Luoghi: collana diretta da Giovanni Ibello 

Terra d’Ulivi Edizioni

 

 


Aggiungi commento