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16/11/24 ore

L’Italia racconta Israele 1948-2018 a cura di Mario Toscano


  • Elena Lattes

Nel 1948 rinasce ufficialmente lo Stato di Israele. Come venne visto questo evento in Italia? E come sono state riportate nel nostro Paese le vicende che lo hanno coinvolto fino ai nostri giorni? Mario Toscano, docente di Storia contemporanea presso la Sapienza Università di Roma ha curato un piccolo volume: “L’Italia racconta Israele 1948-2018” pubblicato da Viella libreria editrice, nel tentativo non solo di soddisfare queste due curiosità, ma anche e soprattutto per offrire ”uno spaccato della storia della cultura, della società e dell’informazione in Italia in settant’anni di vita democratica di fronte alla rivoluzione rappresentata nella condizione dell’ebraismo contemporaneo dalla rinascita di uno Stato”. 

 

Il volume è suddiviso in otto capitoli, uno per ogni dieci anni, affidati a sette ricercatori e saggisti diversi. Un collage di ricerche commentate tra i mezzi di comunicazione più diffusi - che inizialmente erano costituiti principalmente da quotidiani e qualche rivista ma ai quali si sono aggiunti, in tempi più recenti, i telegiornali e i dibattiti televisivi – che danno un’idea di come editorialisti, opinionisti, politici e scrittori guardavano a quel che accadeva in Medio Oriente, influenzati dalle ideologie che avevano sposato, dai pregiudizi o da timori che affondavano le loro radici in millenni di false informazioni. 

 

Numerosissimi sono gli argomenti trattati e dunque, nonostante non siano più di duecento pagine è quasi impossibile tentare di proporre una brevissima sintesi dell’intero volume. Nel complesso, tuttavia, si possono ricordare alcune delle tappe che più hanno segnato la storia politica del nostro Paese, come, ad esempio, l’atteggiamento dei vari partiti e il cambiamento che questi vissero nei confronti della politica mediorientale. 

 

Se inizialmente nella sinistra, soprattutto quella moderata, vedeva nel rinascente piccolo Stato, oltre che il riscatto di un popolo discriminato, perseguitato e massacrato, la realizzazione degli ideali socialisti, mentre la Chiesa e il mondo politico ad essa collegato (in particolare la Democrazia Cristiana) - timorosi di un’eccessiva influenza sovietica e restia ad abbandonare le proprie concezioni teologiche coltivate da decine di secoli secondo le quali gli ebrei erano reietti e divinamente puniti con la dispersione nel mondo - erano decisamente più ostili, privilegiando una “visione di tipo coloniale, specie quando denunciava l’arretratezza e il tradizionalismo” della società araba, a partire dalla crisi di Suez del 1956 e ancor più dalla Guerra dei sei giorni del 1967, le tendenze quasi si invertirono.

 

Dopo un riconoscimento tardivo dello Stato di Israele, avvenuto soltanto nel 1950 (poiché l’Italia temeva di compromettere i propri interessi nelle ex colonie), nel 1955, infatti, iniziò, diffondendosi negli anni successivi, il cosiddetto Neoatlantismo, come ricorda Alessandra Tarquini nel capitolo dedicato al 1968: dopo l’ammissione dell’Italia all’Onu, la nostra “classe politica cercò di ritagliarsi un ruolo diverso da quello dei propri alleati della Nato, tentando di accreditarsi nei confronti di paesi mediterranei ex colonie come una nazione più credibile rispetto alle mire egemoniche della Francia, della Gran Bretagna e degli stessi Stati Uniti e accentuando il proprio interesse per il Medio Oriente, zona strategica per gli affari economici e per la possibilità di arginare l’influenza sovietica nella regione”.

 

Secondo la rassegna riportata, l’Italia poi visse con euforia gli accordi di pace con l’Egitto di Sadat, ma di nuovo cambiò atteggiamento nei confronti di Israele negli anni ‘80, inizialmente con la guerra del Libano e in seguito con la “prima Intifada”.

 

Negli anni ‘90, secondo Guri Schwartz autore del relativo capitolo, nel nostro Paese cambiò di nuovo il clima, sia grazie alla fine della guerra fredda, sia “alla fase di speranza suscitata dal processo di pace”: le critiche furono meno acrimoniose e cominciò a diffondersi l’interesse per gli scrittori israeliani, in particolare per Avraham B. Yehoshua, prima e per Grossman Oz, immediatamente dopo.

 

Nel capitolo relativo al 2008, Arturo Marzano dedica le sue attenzioni soprattutto al nuovo antisionismo  rappresentato principalmente dai movimenti BDS (Boycott, Divestment and Sanctions) e all’islamofobia, soffermandosi sulla spaccatura tra le due opposte concezioni. 

 

Nell’ultimo capitolo, Alberto Cavaglion dopo aver spiegato la genesi e lo sviluppo di un mito basato su una frase falsamente attribuita a Primo Levi e pur attingendo, come gli altri, ad una sintesi degli eventi passati,  non espone soltanto una visione di questi ultimi anni, ma offre alcune considerazioni ottimistiche e speranzose sul futuro.

 

Nel complesso traspare dal libro la denuncia degli estremismi politici, ma anche una certa simpatia, almeno per alcuni degli autori, per quella sinistra moderata che non ha quasi mai abbandonato la sua omologa israeliana.

 

Qualunque siano le proprie opinioni, vale senz’altro la pena soffermarsi sui numerosi spunti di riflessione che il libro offre. 

 

 


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