Calciatore famoso in patria, divenne allenatore nel nostro Paese dove vi rimase per quasi vent’anni. Nel 1943, quando in Ungheria prese il potere un governo fantoccio alleato di Hitler, tornò a Budapest e qui si impegnò in tutt’altro campo, diventando un eroe e un martire. Le sue gesta e la sua attività furono dimenticate per decenni, ma nel 2011 un gruppo di catanesi promosse l’intitolazione di una strada a suo nome. Così, lentamente, Géza Kertész è tornato nella memoria di molti italiani, soprattutto tra i tifosi del pallone.
A ricordare la sua figura e i suoi vari importanti ruoli è ora un libro di Claudio Colombo: “Niente è stato vano”, pubblicato da Meravigli Edizioni, un’opera che va ben oltre la semplice biografia e che ha il merito di far conoscere a tanti una storia che riguarda molto anche il nostro Paese.
Géza nasce a Budapest nel 1894 e fin da piccolo mostra una passione e un talento particolari per il calcio. Inizia a giocare nella squadra di quartiere, ma ben presto viene notato per la sua intelligenza tattica e la singolare tecnica di trattenere a lungo la palla, così a soli diciassette anni passa al Budapesti Torna Club, la squadra che aveva già conquistato due edizioni del campionato ungherese.
Nel 1914 indossa la maglia nazionale in un’amichevole contro la rivale Vienna, si diploma ragioniere e successivamente inizia a lavorare in banca. Nel 1920 passa al Ferencváros, una delle più titolate dell’Ungheria. Nel frattempo ha anche partecipato alla prima guerra mondiale in qualità di tenente colonnello, grazie ai corsi dell’Accademia militare frequentati contemporaneamente all’istituto tecnico commerciale.
Nel 1925 arriva in Italia con moglie e figlioletta al seguito e nei 18 anni successivi sarà allenatore a Bergamo, dell’Atalanta, della Lazio, della Salernitana, della Roma e di altre squadre sparse per tutta la penisola: in Liguria, in Toscana, in Calabria, in Sicilia e in Puglia (portando il Taranto dalla serie C in B). Nel nostro Paese diventa molto popolare, conquistando la stima e la simpatia non solo dei calciatori, delle tifoserie, e di coloro che ruotano intorno al mondo del pallone, ma anche dei cittadini comuni con cui intrattiene cordiali e gradevoli relazioni.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, però, i campionati vengono sospesi, Géza si sposta spesso nel tentativo di mettere al sicuro la famiglia che nel frattempo è cresciuta con la nascita di un bimbo, ma nel 1943 l’Italia è bombardata da nord a sud, nessun posto, nemmeno Roma, è al riparo. Intanto anche l’Ungheria inizia, di fatto, a prendere gli ordini da Hitler. Géza, che è nazionalista ma non fascista, viene richiamato come riservista, così decide di rientrare con i suoi nella città natale dove viene subito ingaggiato dall’Ujpest, sempre, naturalmente, come allenatore.
Riesce a far giocare un solo derby, perché anche nel suo Paese la situazione sta velocemente precipitando: le leggi razziali sono sempre più restrittive, i nazisti e i loro alleati locali, le croci frecciate, hanno già cominciato la caccia all’uomo di ebrei, zingari e dissidenti. A Budapest viene istituito il ghetto e da lì partono i convogli per i campi di sterminio. Istvàn Toth, un suo vecchio amico e rivale di campo, lo convoca e insieme decidono di fare qualcosa per i loro concittadini perseguitati.
Fondano la Dallam (che in ungherese vuol dire Melodia) e collaborano con le diplomazie alleate, nonché con diverse formazioni partigiane. Géza, che conosce bene il tedesco, si veste da ufficiale nazista e riesce a strappare dalle grinfie dei carnefici uomini, donne e bambini portandoli al sicuro nelle case protette, istituite dal consolato spagnolo guidato dall’italiano Franco Perlasca e da quello svedese in cui è attivo Raoul Wallenberg.
Nasconde una giovane coppia perfino a casa sua, ma i nazisti e i fascisti ungheresi lo scoprono a causa di una soffiata. Géza, Istvàn e l’intero piccolo gruppo vengono quindi arrestati, buttati in minuscoli tuguri e torturati per tre mesi.
Finita la guerra verranno commemorati con funerali postumi, celebrati con i dovuti onori, ma poco dopo il regime comunista farà cadere nel dimenticatoio questi eroi, soprattutto Géza che non aveva mai nascosto la sua indole patriottica.
Anche per questo, dunque, è importante l’opera di Colombo, perché, nonostante la lodevole iniziativa dei catanesi e della città di Bergamo che ha intitolato a suo nome una struttura sportiva, Kertész non è ancora ricordato a sufficienza, malgrado egli sia stato una figura di notevole rilievo per il nostro svago nazionale preferito e sia arrivato a sacrificare la sua vita per salvarne tante altre, meritandosi il soprannome di “Schindler del calcio”.
Il libro, poi, offre alcuni ulteriori preziosi contributi, poiché il racconto avvincente è corredato da una sintetica, ma dettagliata biografia, da diverse fotografie e soprattutto da un’appendice dedicata a vari argomenti correlati (dalle Olimpiadi del 1936 e le varie tappe calcistiche percorse dall’Italia in quell’occasione, alla storia italiana e ungherese: le passioni sportive dei Mussolini, il Manifesto della Razza riportato per intero, una descrizione delle Croci Frecciate e di alcune vicende ad esso legate, il contributo di Giorgio Perlasca con brevi cenni anche a due alti prelati cattolici italiani, (Angelo Rotta e Gennaro Verolino) e altro ancora...
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