Narra un midrash (commento o un'interpretazione dei testi biblici che in genere assume la connotazione di un racconto allegorico con un significato morale) tratto dal Talmud babilonese che una volta Rabbi Yehuda Hanassi (redattore della Mishna) si rifiutò di fornire riparo ad un vitello destinato al macello dicendogli che era stato creato con lo scopo di essere ucciso [per essere mangiato]. Per la sua mancanza di pietà il Signore gli inflisse alcuni dolorosi problemi all'apparato grastro-intestinale. Per lungo tempo a nulla valsero le sue preghiere, ma dopo qualche anno successe che lo stesso Maestro fermò la sua domestica mentre cacciava malamente due cuccioli di donnola intimandola di lasciarle stare e citandole il Salmo 145, 9: “La sua misericordia è sopra tutte le sue opere”. Grazie alla compassione che egli ebbe verso i due animaletti, i malanni di cui aveva sofferto scomparvero improvvisamente.
Ispirandosi a questo midrash Piero Stefani in “Le donnole del Rabbi”, pubblicato da EDB Lampi, analizza il significato della misericordia nella tradizione e nella filosofia ebraica. Concetto fondamentale, ma piuttosto complesso, è molto presente in tutte le religioni monoteiste (l'autore ricorda, per il Cristianesimo, la situazione analoga di Francesco d'Assisi, quando si trovò a donare il suo mantello ad un pastore per salvare la vita di due agnellini destinati al macello e l'insegnamento nei Vangeli di Luca e Matteo sul buon samaritano, sull'indifferenza verso il prossimo bisognoso e sulla promessa di reciprocità per i misericordiosi. Cita, poi, la basmala – la frase introduttiva che apre le sure coraniche - che tutto consacra: “Nel nome di Dio il misericordioso e compassionevole” e un hadit riguardante il giudizio e la giustizia divina) sia per quanto riguarda il rapporto tra il Signore e l'uomo, sia tra quest'ultimo e le altre creature viventi. Un doppio, forse triplo legame dal punto di vista relazionale, ma anche sotto il profilo linguistico e concettuale.
La pratica della misericordia da una parte deroga e mitiga la giustizia divina, dall'altro sopperisce alle mancanze terrene e fa sperare in un mondo migliore, anche se quasi sempre non cambia la situazione generale. In ebraico, misericordia, “rechem”, è il relazionarsi dall'alto verso il basso e rappresenta il rapporto tra Dio e le proprie creature. Essa ha la stessa radice linguistica della parola che indica il ventre materno e l'uomo che la esercita si avvicina a Lui, il misericordioso per eccellenza, poiché mette in pratica l'essere “a Sua immagine e somiglianza”. La misericordia non è l'antitesi della violenza o dell'aggressività, ma dell'indifferenza e della freddezza verso la sofferenza altrui. Impossibilitato ad identificarsi totalmente con quest'ultima, l'uomo ne può però prendere su di sé una piccola parte attraverso la consolazione. “Alla creatura umana non è concesso nulla di più alto che riuscire a consolare il proprio prossimo; né vi è esperienza più indimenticabile dell'essere consolati.” spiega l'autore.
Ecco allora che si forma il secondo legame: “consolare” ha la stessa radice linguistica di “pentirsi”: se l'uomo si pente, allora anche Dio ritorna sui suoi passi, ritirando le minacce o mitigando il giudizio (come per esempio nel caso di Giona e come viene espresso da un detto di Tommaso d'Aquino). In altri termini come si diceva poc'anzi, la consolazione è strettamente connessa alla capacità di ospitare (almeno in parte) il dolore altrui. L'ospite è colui che “abita” e offre la sua dimora e questo concetto è espresso dalla parola “Shechinà” che sta ad indicare anche la presenza divina nel mondo. Dio è ovunque, e, come viene più volte ribadito nei testi biblici e nei commentari, lo è perfino nell'esilio, è nel e col popolo tribolante. Una presenza che è sinonimo di vicinanza (un'osservazione personale di chi scrive: in ebraico moderno “shachen” è il vicino di casa) e che si fa carico della sofferenza. La Shechinà è quindi anche “pegno di redenzione e soggetto d'invocazione”, nonché promessa di ritorno e di fine dell'esilio.
La misericordia, se disinteressata e senza altri fini, muta le relazioni e viene a crearne di nuove, facendo cadere il muro dell'estraneità. Tuttavia, come introduce l'autore, anche il racconto di azioni che la riguardano è importante, poiché esso implica la constatazione dell'incompletezza dell'azione e narra non solo la realtà, ma anche ciò che è possibile.
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