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16/11/24 ore

"Il Paglietta napoletano", Sofisti all’ombra del Vesuvio



So’ frischi, ‘ncravattati, vistuti a messa cantata e chieni e’ profumo ‘nfaccia. Maneggioni e ‘ntrallazzaturi, ma anche mediatori raffinati, i ‘paglietta’, ovvero gli avvocati che non esitano ad accendere ceri alle madonne del vicolo pur di intascare scudi e denari, sono figure-cerniere tra l’irraggiungibile latinorum del diritto vero, e il popolo che cerca giustizia e al Sud si affida sempre armi e bagagli a chi sape e conosce e po’ trovà a chiave per aprì na porta ‘nserrata.

 

Astuti e cavillosi, abitano una Napoli senza tempo perché esperta di umanità, si muovono a metà strada tra il diritto che non guarda in faccia a nessuno e la carne del popolo che vive nei Bassi, con gente che quando ha problemi ‘mette e’ ccarte mmano all’avvocato’.

 

A chi vattono e a chi promettono, i furbi sofisti allevati all’ombra del Vesuvio, sono ugole più che coscienze, ‘hanna campa purre lloro’ e s’inventano il genere del pagliettismo, menando alle lunghe processi e sentenze, trovando arzigogoli, rimestando miserie o punteggiando cause con lampi di genio e trovate proverbiali.

 

A casa d' 'o mièdeco e d' 'o pagliette trase e aspiètte, recita la sapienza partenopea che nei secoli ha imparato a conoscerli e a prenderne le misure, per pesarli. Nel Foro come tra le strade lastricate di pietra lavica, gli aneddoti su difese sulfuree e funambolismi giuridici, si sprecano. E così le voci che rincorrono gli esegeti del codice fatto in casa.

 

Napoli è il paese degli avvocati, perché ognuno sa raccontare un fatto e spende le sue tesi tra le aule di giustizia e i panni bianchi appesi ai balconi. Pedante o ‘Manfurio’, avrebbe detto Il Nolano, il paglietta è ‘na bella pelle, e conosce sempre i suoi polli. E si incultura, mimetizzandosi: sa essere forte con i potenti, generoso con i popolani, sempre restando geneticamente sanguisuga nell’animo e sfruttatore di mestiere. Spesso, quando la luna si faceva monaca, chiudendosi dietro la notte, gli avvocati delle cause perse non disdegnavano l’abbraccio caldo di una bella donna dei Quartieri, dagli occhi neri e fuoco in corpo, che durante il giorno avevano ubriacato di chiacchiere. Perché al Sud anche la carne è moneta. E non sfugge ai barattieri.

 

Andrea Vitelli nel gustoso libro 'Il Paglietta napoletano. Spigolature e curiosità di storia napoletana' (ed. Stamperia del Valentino), li mette in scena con i loro lati comici ma anche truffaldini. Li fa parlare tra un prendere a cuore le ragioni di millenari torti subiti e una ‘macriata’ che sveglia dal torpore i rioni, lanciando pietre alle finestre e imbrattando le pareti esterne e le porte delle case dei nobili con tintura rossa, sterco o altro e, talvolta, appendendovi un paio di corna. Che a Napoli sono segno di tanti percorsi.

 

Queste pagine divertenti, che non hanno la pretesa della storicità e qualche volta sbandano nei luoghi comuni, come per l’antimassoneria di professione (la Massoneria a Napoli e al Sud è stata sempre uno spazio di confronto libero e di crescita), raccontano fatti che vedono protagonisti gli strascina faccende abili a incastonare parole, come don Filippo Villani, perché tra il tufo giallo di Napoli le parole sono l’unica cosa che costa poco.

 

Da nobis clientes, il verbo dei principi del cavillo che vediamo districarsi con abilità felina tra grida di popolo e capitoli angioini, prammatiche aragonesi e monacielli che fanno scherzi e mettono in croce pure la miserie. Presso il popolo napoletano è detto paglietta per l'abitudine degli avvocati del primo '900 a indossare il cappello di paglia rigida. Più comunemente è detto, affettuosamente, o' scurnacchiato.

 

Maestro della creanzella, il paglietta ha un suo calendario che si premura di indicare ai clienti per farli bussare alla porta di studio ‘con i piedi’, perché le loro mani dovevano portare regali a Natale, a Pasqua e alle altre feste ‘ricordebboli’, che, in un paese spagnolizzato fino all’osso, erano moltissime e sempre da onorare.

 

Anche in questo, ha ragione l’autore a far notare che il lettore troverà in queste storie “un lato forse ignorato della antica storia di Napoli, così suggestivamente caratteristica, così ricca di colore locale, d’irresistibile curiosità, così piena di giocondità ridanciana, capace di darci una verde oasi nel deserto, sovrastato da un cielo di piombo, della nostra vita odierna, così diversa da quella di un tempo”.

 

Parole laidamente sante. Perché piene di umanità. Mediatore e traghettatore in quel Purgatorio a cielo aperto che è la Napoli di ogni tempo, il paglietta è un po’ come la figura di don Ersilio Miccio, messa in scena da Edoardo ne L’oro di Napoli. Il musicista vende saggezza e per pochi spiccioli dà consigli risolutivi a fidanzati gelosi, militari innamorati e parrocchiani in cerca di una frase ad effetto. Alla fine al problema del quartiere - come punire lo spocchioso nobile (il Duca Alfonso Maria di Sant'Agata dei Fornari) – la soluzione è il pernacchio che risolverà il tutto.

 

Gli stracciafaccende vivevano di certificati e carte bollate, ignoranze e paure popolari per tutto ciò che era palazzo, scartafacci e burocrazia. Un proverbio napoletano, di quelli che inchiodano, recita: “Che differenza c'è tra un avvocato e una puttana? Che quando sei morto la puttana smette di fotterti…”.

 

Ma di questa figura raccontano anche i versi di Giovanni Capurro (1859 -1920): “Facite comm'a mme, senza timore: cufféjo pure 'a morte e 'a piglio a rrisa... Io so' cuntento meglio 'e nu signore pecché tengo una faccia e una cammisa... E quanno metto 'a lengua 'int'ô ppulito, che ne facite 'a lengua 'e nu paglietta!? Embè, quanto stimate 'a palla 'e vrito, chi vo' stà bbuono, à dda sapé 'a ricetta!”

 

Campioni di minuzzarie, il paglietta sguazza nel mazzamma, nel senso letterale di pescame di ridotte dimensioni, di scarsissimo valore gastronomico e di poco prezzo, poi significando per traslato una congerie di diverse cose o di persone da usare. Forse aveva ragione ’Mbriachella, che dopo la prigione alla Vicaria, rafforzò così la sua filosofia di vita: Nu buono gusto ’na semmana avasta.

 

dalla prefazione al libro

Gerardo Picardo


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