Il disastro del Peloponneso è stata un'azione di guerra dell'umanità contro se stessa, un'inenarrabile violenza: un barcone, un peschereccio (una sorta di relitto), con almeno settecento migranti stravolti dalla paura e dalla speranza, è partito dalla Cirenaica, dalla costa di Tobruk, sabato 10 giugno ed è affondato nel mar Ionio, intorno alle 2, della notte del 14 giugno. Nella stiva erano stati accatastati cento bambini e molte donne, tra cui le madri.
I bambini erano stati assurdamente legati per impedire che, coi loro movimenti, potessero rendere ancora più precario l'equilibrio della barca. Almeno seicento i morti. Nessun bambino s'è salvato.
RINO MELE
Sigillati nel Mar Ionio
Chiusi nella stiva, non avevano
più voce
i bambini storditi dal pianto.
Da quattro giorni in quel buio sporco,
cuciti gli uni
agli altri, bagnati delle loro lacrime,
non distinguevano
se stessi dalla pelle di chi stava
accanto,
erano tutti così vicini, legati con
dolorose corde perché non
scuotessero
della barca l’incerto ansimare.
Con loro, le madri
disperate,
dissetate dalla propria
urina, ubriache
d’acqua di mare, nella paura di bere
anche nel sonno quel sale.
Formavano, i bambini, un lenzuolo
che, aprendosi,
chiedeva aiuto: nel fetore dei motori,
l'nsopportabile stridore,
le urla
che nessuno udiva più.
Dal 10 giugno 2023, restarono
prigionieri
nella stiva di quella fragile barca,
ma al largo del Peloponneso,
tutto finì:
nero nella notte, il peschereccio
restò fermo sulle
acque calme,
poi la chiglia si ritrovò in alto
e il ponte
in basso, i corpi incollati al respiro:
fu un interminabile
urlo, il mare
si richiuse in fretta - anche il cielo
s'era inabissato -
c’era da scendere lo sprofondo, le
infinite scale d’acqua, i colori
della notte,
il bianco del sangue.
Quando l’imbarcazione
si capovolse,
il mare
entrò nel respiro di quei bambini
e la morte slegò
nel sonno
le loro corde, i lacci, i nodi: e le
piccole mani
fredde
cercarono le braccia delle madri.
Sempre la vita termina col
naufragio,
fingiamo di non saperlo, la stiva
piena dei corpi che
non abbiamo salvato per il nostro
poco amore, la distrazione
che ci tira su una
riva a guardare aprirsi il mare.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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