Il 9 maggio 1978, Aldo Moro è ucciso. In una delle sue ultime lettere, dal carcere che lo devasta, scrive a Elio Rosati, deputato dell'area morotea, con parole che sembrano i riflessi notturni di un incendio: "Tutto quello che farai nei prossimi giorni, con la forza della disperazione (cerca di farlo capire agli altri) è meglio per la D.C. e un salto di salvezza su di un abisso”.
Su quei 55 giorni vissuti da Moro in una cella più stretta della sua stessa angoscia, ho pubblicato "Il corpo di Moro", i versi aspri di un poema, nel 2001 (edizioni 10/17). La seconda edizione è con Oèdipus, 2018.
Ho scritto, oggi, questi nuovi versi, nell'orrore dell'uccisione di un uomo catturato, un prigioniero.
RINO MELE
Strazio di Aldo Moro
La mattina del 9 maggio furono così gentili, lui sapeva
d'essere ucciso, sarebbe tornato
a quel confine cui ripetutamente pensava, come una strada
che gli precipitava incontro.
L'avevano cucito con aghi ricurvi
in un'ossessione,
prendendolo prigioniero, chiuso in un sacco
come i patricidi prima di gettarli nel Tevere, insieme
a una scimmia e a un gatto.
Pensò per un istante alla dolcezza di un paesaggio,
suo nonno
che lo teneva per mano sotto un albero, le foglie erano
le corte spade di una magnolia.
Lo scesero in una grossa cesta, lo spinsero
in una Renault rossa, era
un lavoro imperfetto che si rompeva:
tutte quelle morti, gli interrogatori, le lettere scritte,
le inutili notizie dette al contrario, come un gioco: in cui,
nascosto
da un muro, parli e nessuno risponde.
La sua cattura finiva nell'uccisione, lui assisteva,
li guardava allargare un plaid
prima di posarglielo sul volto: non volevano
farsi guardare
mentre sparavano. Somigliava a una difficile nascita il nero
spietato di quel morire.
Gli uomini della scorta, uccisi, gli erano rimasti accanto,
in quell'obliqua primavera
nella quale sarebbe stato facile salvarlo: ma chi lo cercava,
con l'altra mano ne cancellava le tracce.
Bianchi, gli uomini della scorta, uccisi,
gli erano rimasti accanto.
Quando i brigatisti s'accorsero che non era morto,
ne ebbero paura,
gli spararono ancora. Poi, quel girare per Roma, col corpo
nascosto,
da mostrare. Fermarono la Renault rossa a un incrocio politico
di strade, quasi la morte fosse vera
solo nel delirio di un'astrazione, come dadi
gettati in aria, pensati fermi, che non possono cadere più.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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