L'immagine del sogno iniziale ("Sogno una stanza chiusa / c'è una scala alta, la salgo e la stessa stanza / di nuovo appare"), l'ho presa dal "Candelaio" di Giordano Bruno, 1582. Nella scena undecima dell'Atto IV, il racconto che fa Manfurio ha l'irrequietezza disorientante dei fantasmi notturni: "Per certe scale asceso in alto, toccai del primo cubiculo porta: dove mi fu risposto che andasse oltre, perché ivi non era, né vi era stato, altro che que' domestici presenti. Aliquantolum progressus, batto l'uscio di un altro abitaculo, il qual era nella medesima stanza".
RINO MELE
Immagini del sonno
Sogno una stanza chiusa,
c'è una scala alta, la salgo e la stessa
stanza
di nuovo appare: mi dirupo in quel
precipizio,
cerco salvezza
nelle porte che non ci sono,
inattraversabili pareti
della paura.
Chi dorme non sa
se ritroverà
il sentiero per tornare, liberarsi
dagli interrati pensieri,
il freddo
profondo che vorrebbe dimenticare.
Quel luogo ostile
e familiare
è un irrefrenabile scivoloso
precipizio,
nella pioggia nera che si ripete.
Nei nostri sogni,
c'è sempre un morto,
un quasi morto,
ha il nostro volto, ma non il nome:
nel sonno vuoto, quando
siamo lontani
dalle figure della notte, parliamo
con lui una lingua
straniera che non abbiamo imparato:
il buio freddo
è quella lingua senza suono. Dormendo,
siamo ospiti
e prigionieri di un mostro,
mentre le ombre s'allontanano,
sanno che le abbiamo
ingannate,
una di esse guarda altrove
per sempre, entra nel bosco dagli alberi
bianchi,
la seguiamo con gli occhi chiusi del sonno.
Nell'atroce
dolore, le mute parole del pianto.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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