Difficile individuare le sorgive della poesia, la purezza di quel silenzio, una ricerca nel buio di ciò che precede il linguaggio. Ha scritto Heidegger ("In cammino verso il Linguaggio", 1958): "Il poeta esperisce la sua vocazione di poeta come una chiamata alla parola quale fonte dell’essere”.
RINO MELE
Poesia e stupore
Le parole sono il volto del dolore.
Imparando a parlare, i bambini diventano se stessi negli altri,
abbandonano il pensiero continuo - il cielo nel
bosco d'acqua del mare - per ferirsi
nei frammenti di uno specchio: dove l'inconoscibile nostro corpo
riflesso è slegato e diverso. Niente è più uguale
nel nostro grammaticale
parlare, è un continuo disunire, allontanare, disgiungere, tagliare,
ed è così che la parola
progressivamente si sostituisce al pensiero, crediamo
di pensare quello che diciamo
come automi impauriti - e subito dimentichiamo. Alla fine della vita
rimane di noi un ischeletrito
pronome personale,
vuoto, effimero come un insetto, le lunghe ali spezzate, il loro
disperato ultimo movimento per fingere
di volare. Tra le ondose parole
di una torrenziale alluvione, la poesia tenta
di risalire la forza di quel fiume: cerca l'enigma del pensiero
prima della parola,
quando era solo stupore.
Ritrovare parole nuove come gusci di mare, l'odore d'erbe,
il latte che - appena nati - ingorga, e non ti lascia
respirare,
il tepore della cagna bianca che addormenta
i suoi cuccioli. E le ombre dei morti nascoste nelle parole
raggiungono un meravigliato silenzio.
La sera s'apre in un azzurro così chiaro che sembra pioggia,
col volto bagnato
tua madre ti preme le labbra scure sul volto e s’allontana.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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