Nell'articolo di martedì 22 marzo "Condanna a morte tra le macerie: qui la resa non è un'opzione" di Giampaolo Visetti, inviato in Ucraìna per "Repubblica", possiamo leggere - e sembra una surreale Apocalisse - il messaggio di Nadezda Sukhorukova: " Sono sicura che morirò prima, spero solo che non sia così spaventoso. I cadaveri si mettono al freddo sui balconi: chissà quanti corpi sono esposti davanti alle nostre finestre senza vetri". Continua Giampaolo Visetti: "Il tempo di Mariupol è scaduto: chi va per mare, e chi semina la terra, è già oltre l'attesa: Cinque navi ucraine con migliaia di tonnellate di grano sono state trainate ieri al largo del Mar d'Azov da rimorchiatori russi, come bottino di guerra".
RINO MELE
I balconi di Mariupol
I morti li hanno messi sui balconi, al freddo
della notte,
davanti alle finestre senza vetri,
dovunque sia il respiro
del vento a contrastare la putrefazione.
Basta un'esplosione a
dilaniare il cuore, il corpo trasformato in tenebra,
i pensieri svaniti nelle parole. Nel deserto
di Mariupol i vivi
sono sottoterra, nei rifugi,
i morti al vento freddo di una finestra.
I carrarmati
sanno di sprofondare
formano pozzi da cui nessuno risale.
Una casa con le radici, come di un grande albero,
è l'Ucraìna
invasa dai Russi giovedì 24 febbraio
prima dell'alba: si sentono
le sirene gridare ma non puoi fuggire,
i palazzi restano nudi
come chi è morto.
Nel delirio non basta
afferrare una mano con l'altra,
torcerla, legarla
a una corda, trascinarla a una forca,
tirare il proprio corpo in alto, una sagoma
che il vento spinge, e addolora.
Nemmeno i morti
vanno via da Mariupol,
i moribondi formano un lungo tormento. La città
è vuota, non ci sono più strade, le case
sono colline di macerie, nel guaito doloroso
i cani corrono
a occupare lo spazio. Negli scantinati
s’ammassano cittadini
senza volto, prigionieri dei rifugi lungo il fiume
Kal’mius, respirano
a stento, chiedono ai bambini
di non piangere, ai vecchi di non morire.
I Russi non occupano la città,
la cancellano, tra poco sulla pianura del Mare d’Azov
resterà un cratere.
Non possono ucciderli tutti,
dove metterebbero quei corpi, e i canti dei bambini
in quale silenzio nasconderli ?
La guerra è sempre un disperato genocidio,
non si combatte per conquistare una città, un villaggio,
ma per farli dimenticare.
Uno specchio
è tenuto stretto
alle nostre spalle, Uxelloduno resta nella memoria:
nel 52 prima di Cristo,
con una crudele geometrica guerra faticosa,
Cesare
rese romana l'intera Gallia,
un milione di nemici uccisi, un altro milione
divenuti schiavi.
Su un monte circondato da un fiume, Uxelloduno
resisteva. Cesare, dèvia
le sorgenti, li costringe alla resa: poi fa tagliare
le mani che avevano preso le armi
contro di lui.
Ma, di quei soldati
fatti a pezzi dopo la resa, arde ancora l’incendio.
- Poesì di Rino Mele. Terrificante veder morire (Agenzia Radicale)
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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