Le rose d'inverno, il nuovo anno che appare - nello sconforto e nel riso - col doppio volto di un familiare enigma.
RINO MELE
Le rose di Virgilio
Nella ferma ora meridiana, le siepi di rose sono
un confine
con nascoste divinità. Virgilio
se ne incantava, vi leggeva la speranza di
conoscere
il cavo della maschera di chi, per sempre,
ha girato il volto verso il vuoto,
dove grida lo sconosciuto
silenzio. Amava le rose, nell'addensarsi dei petali
vedeva un labirinto, il doloroso
affanno
del respiro, la corsa al contrario verso un'origine
senza rappresentazioni, illusorie
immagini,
ma con la concreta
asprezza che viene prima dei nomi,
come una pietra che voli e sappiamo ci colpirà.
Sulla riva, la notte
scende piano, si lascia trascinare lontano, il vento
sembra uno stormo di uccelli.
Nella nebbia
un'automobile è ferma
con i fari accesi, vuota. All'alba tornano i rumori,
l'intestardirsi di un remo
sfinito nello scalmo.
Un anno nuovo è come, nel sogno, remare
per uscire dal luogo senza ricordi
e ci resti dentro, come nell'eco il richiamo.
Una stanza notturna, un prato.
La barca è sul tetto di una casa in mezzo al lago.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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