L'insopprimibile angoscia della nostra ossessiva condizione di prede predaci.
Il mio testo termina con l'esemplare momento preparatorio, surreale, della sfida tra Isacco e Abramo al quale Dio aveva imposto una prova di morte.
RINO MELE
Isacco e Abramo
Colorate figure ci vengono incontro
nella lieve pioggia, è il respiro
dei morti,
vogliono essere dimenticati,
stanchi di giocare allo scambio infinito:
sono lontani dall'inganno, non hanno
più voce per farlo, né dita
per sciogliere i lunghi nodi di refe.
Un bambino
nasce: con la mia bocca grida
il dolore di trovarsi in questa notte
senza uscite
come in un sacco - con dentro un cane,
una scimmia, un gatto -
gettato nel fiume.
Siamo nella rovesciata simmetria della
fine: da un lato c'è un padre,
una sorta d'Isacco invecchiato, dall'altro
il fantasma di Abramo,
preparano la legna
per il sacrificio,
pongono su un panno bianco il coltello,
la pietra per affilare, fingono
di non guardare, fanno lo stesso gesto
al contrario.
Nessuno di loro chiude gli occhi,
perché - nemmeno un istante - l'altro
scompaia.
Più tardi, placherà
quel furore la luce bianca dell’alba.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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