Al 72° metro della gara di domenica 1 agosto, Jacobs è imprendibile, sfugge a se stesso, corre alla velocità di 43.056 km/h. Correre non è camminare, è uno sfidare il vuoto che ti s'apre davanti. Siamo stupefatti nel vedere un bambino tenersi in piedi e dare il primo passo, tornare indietro, riprendere a camminare: poi tutto sembra confondersi nel quotidiano ripetersi delle ore. Ma la prima volta che un bambino corre chi la ricorda?
RINO MELE
LA CORSA (da Jacobs al bambino che impara)
L'aria diventa acqua quando
corri, si oppone contro il tuo corpo
a lottare. Il respiro
manca
nel gioco aspro di
raggiungere la propria ombra e, inseguiti,
inseguirla.
Sulla linea di partenza,
curvi, gli atleti guardano senza vedere,
la gara
inizia nel tempo
che si spezza, è subito un volare contro.
Chi corre - un bambino che
impara la vertigine
o Marcell Jacobs che vince a Tokyo -
si trova sempre
a torcersi nell'aria
per raggiungere il proprio io
dimenticato.
Correre non
è muoversi velocemente ma sognare di
cadere
in un precipizio e sopra di esso fermarsi:
come gli uccelli,
dopo avere battuto con le ali
furiosamente
l'aria
fino a ferirla.
Di notte, nel buio, il freddo
sul volto,
la felice necessità di sciogliersi
da ciò che ci trattiene:
e lo stupore
di staccarci da noi stessi,
nell'attesa d'essere
raggiunti dal nostro corpo, rimasto indietro.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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