Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

08/05/24 ore

POESÌ. Rino Mele, Morte di Seneca



Tacito descrive così la morte di Seneca (65 dopo Cristo) cui l'imperatore Nerone, accusandolo falsamente di aver preso parte alla congiura dei Pisoni, ha ingiunto di uccidersi: "Poiché il suo corpo vecchio ed indebolito dal poco cibo, offriva una lenta uscita al sangue, si recise anche le vene  delle gambe e delle ginocchia (...). Protraendosi la morte lenta, Seneca pregò Anneo Stazio, da lungo tempo amico suo e famoso per l'arte medica, di dargli quel veleno già da tempo provveduto, col quale si facevano morire gli Ateniesi condannati in pubblico giudizio. Avutolo, lo bevve invano perché il gelo aveva già invaso le membra, e il corpo era ormai refrattario all'azione del veleno".

Seneca morì il 12 aprile.

 

 

 

 

RINO MELE

 

 

Morte di Seneca

 

 

Riusciamo appena a distinguere l'io e il tu, nel riflesso

dello specchio

cui attribuiamo i pensieri che non ha,

l'insincero volto che su una limpida superficie vediamo. Parliamo

- e il linguaggio è solo risposta alla voce

che ci insegue - non sapendo dire 

niente che non sia l'urlo 

dal quale siamo stati generati, mai del tutto nati.

La sembianza di un suono, la vocale che si ripete, e

in cui si nasconde nostra madre, il suo tornare dai morti quando

ogni voce manca.

Com'è dolce dormire nelle albe di quest'aprile, scordàti

di tutto. Seneca

ebbe l'ordine di uccidersi da un pazzo imperatore. Nel farlo, ebbe pietà

e non dolore.

Aprì le sue vene, bevve la cicuta, cercò un sentiero nel sangue che

l'acqua tenera di una vasca confondeva.

Entrava nella notte, ripensò alle rose di un vicino orto, si rallegrò per il

loro odore, il colore da cui la sua vita

fuggiva. Lasciava ai margini di una sconosciuta strada

il vestito, la maschera del volto, il doloroso destino, la continua 

rapina del prendere 

nell'accumulo della pena: la distruzione delle ombre amate

dimenticando di averle viste soffrire.

Mentre scriviamo, svaniscono i segni appena tracciati, resta di noi 

il fischio lungo di un treno lontano, il silenzio.

 

 

_________________________________________  

 

 

 

Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.

  

 

 

Leggi l'intera sequenza di POESÌ