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23/11/24 ore

POESÌ di Rino Mele. Tra voce e parola il dirupo del volo



Tra la phoné, la voce originaria, e la lingua è l’incrocio dei sentieri che il destino appresta a ognuno di noi. In questi versi parlo d’inganno e di mistero, con un riferimento a Il suicidio e l’animadi James Hillman, 1964: “La parola mistero viene dal greco myein, che è usata sia per la chiusura dei petali di un fiore sia per quella delle palpebre. È un naturale movimento di occultamento, che mostra la pietà della vergogna di fronte al mistero della vita, metà della quale ha luogo nell’oscurità”.

 

In Psicologia e poesia, 1930, Garl G. Jung scrive: "Il cosmo in cui l'uomo crede di giorno, lo deve proteggere dai timori notturni del caos". Ed è lì, in quella dimensione notturna, s'annida l'origine carsica della lingua. Nella suaPolitica,Aristotele dice: “La voce è segno del dolore e del piacere e, per questo, appartiene anche agli altri viventi (…) ma il linguaggio è per manifestare il conveniente e lo sconveniente, così come anche il giusto e l’ingiusto; questo è proprio degli uomini”.

 

I quaranta versi del mio testo, Tra voce e parola il dirupo del volo, terminano con un tentativo appena accennato di analisi di Las meninas di Velazquez, 1656.

 

 

                 

 

 

POESÌ di Rino Mele

 

 

Tra voce e parola il dirupo del volo 

 

Quando stai per morire, ti ritrai dalla tua lingua, cerchi rifugio nella voce,

il singulto che opprime

nel respirare e, in quei suoni interni, cavi passaggi

d’aria,

ritrovi gli occhi azzurri di tuo padre, la veste nera materna, le parole

dimenticate.

Al contrario, quando impara a parlare, il bambino è cacciato nell'imbuto

di una continua esclusione: con lo stupore di un emigrante

risponde solo ridendo,

la pietà del povero 

che chiede d'essere spinto dolcemente, gettato oltre la soglia con garbo,

battuto senza fargli troppo male, spezzato 

nelle ossa ma come fosse un rituale. Ostile, veloce (una corda che

circonda ed esclude) la lingua

s’appropria della voce di quel bambino, la trasforma

con crudele alienazione.

È una cattedrale costruita di notte, con le parole degli incubi, a ognuno è

stata imposta, strada tra alte mura, burrati,

profondi iati. Una guerriglia

perduta tra continue imboscate, sei costretto

con pena

a pensare quello che tra mistero

e inganno la lingua ti permette di fare (mistero significa sollevare

e chiudere le palpebre,

chiudere gli occhi appena aperti, unico linguaggio veramente nostro).

La lingua

è la madre estranea: ormai lontani

dall’altra che ci parlava con le labbra, la saliva,

e il pianto.

La stanza è grande, il re è con la regina, in posa,

fermo

davanti a una grande tela sulla quale il pittore lo ritrae, ha solo da

mostrare il suo corpo regale.

Filippo IV di Spagna è già una larva. Morto,

esce fuori dalla superficie di uno specchio posto in fondo alla sala,

in quel riflesso

vive la memoria di se stesso, conosce la vicenda del tempo che ritorna

 nel suo rovescio, il tormento

di un processo in cui tra le parole dette, sempre più strette, si ripete

la condanna della vittima.

 

 

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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.

 

  

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