Mentre inizia la guerra in Libia, e noi stupiti guardiamo questo nuovo filo che l’ago spinge a tessere la fine, viviamo questo Aprile di falsa primavera secondo le sue figure simboliche. Quelle della croce e della resurrezione. La gara di corsa tra Giovanni e Pietro, tra stupore e dolore,verso il sepolcro e chi prima giunge non entra e lascia all’altro di varcarne la soglia, è raccontata da Giovanni (20, 4-8): “Currebant autem duo simul”. La frase di Macbeth disperato (atto V scena V) è “There is nor flying hence nor tarryng here” che viene tradotto da Guido Bulla, 2008, in contrasto con l’ansia dell’epilogo, in maniera leggera, quasi a sfiorare l’aria di una commedia, “C’è poco da indugiare o scappar via”. Nei miei versi ho adottato la traduzione di Gassman, dell’83.
POESÌ di Rino Mele
Aceto e vino d’aprile
Aprile è entrato come un vino fresco
nella nostra gola - il più dolce veleno - è tornata la primavera
a beffarci: ma è l'inverno estivo
a continuare l'inganno
col suo volto malato, roso dalla peste. Ad aprile è Pasqua,
muore Cristo, ma solo come può morire un dio, fuggendosene dalla
morte.
Immaginiamo la resurrezione secondo una linea verticale, Cristo
che sale, veloce, e scompare, i soldati guardano in aria,
sognano d'essere addormentati,
le donne che arrivano in ritardo (ma sono le prime a farlo) e poi
Giovanni e Pietro, come in una gara corrono
verso la pietra
che non nasconde più niente,
si strappa da sé (come dalla propria fredda ferita) nello stupore
d'aver custodito quell'infinita energia che non possiamo nemmeno
pensare
senza sentircene divorare.
Stiamo sempre a rimuovere, struccare,
porre nuova biacca e bistro intorno agli occhi
di chi scompare, che guardano e non vedono (noi che vediamo e non
sappiamo guardare).
Anche Shakespeare morì d'aprile. Il suo Macbeth (piaceva
tanto a Manzoni) ci dice
quello che non vorremmo sapere: "Fuga e rifugio sono entrambi
impossibili" esclama sconsolato il re assassino.
Viviamo coi nostri corpi feriti su una scena che si sottrae
alla nostra parziale visione. Tra quello che mostriamo d’essere
e il desiderio sconosciuto che ci assale,
- stupiti di non sapere cosa vogliamo oltre il possesso, che spinge
a predare, togliere dalle mani dell'altro il pane -
c'è la figura che più conosciamo, e rifiutiamo di confessare, formata da
poche linee
e tra loro si specchiano allontanandosi:
la feroce asimmetria
che storce anche il volto di nostra madre, tutto deforma, e col
disamore coincide l'affanno.
Mentre alziamo il braccio contro l'altro che noi stessi siamo, colpendoci,
I morti portano via qualcosa che non potrai ritrovare,
ne resta l’immagine, chiara.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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