La violenza quotidiana, la povertà e l’arroganza ci feriscono e la crisi sembra senza soluzioni: la comunicazione continuamente interrotta, deviata, l’umiliazione che ne deriva, il monologo ossessivo che sopravanza ogni attesa. È il tema di questi versi appena scritti.
POESÌ di Rino Mele
Il gatto e il diluvio
Il linguaggio è una casa di piacere, un carcere,
un granaio, alto silos, torre di avvistamento delle incursioni dal mare.
Non sali mai le stesse scale, ti dirupi
male, rispondi con parole che non sai, il suono si rinnova
nel silenzio, l'urlo alfabetizza il dolore.
Se carezzi un gatto - e non sei un gatto - non puoi sapere cos'hai
comunicato al nero felino che s'inarca: la tua carezza
è un enigma
di cui è prigioniero e custode.
Nel linguaggio in cui ci troviamo legati c'è un caparbio sopruso,
la violenza della legge, lo schiaffo dato al bambino,
la parola non detta,
la paura che sacrifica il destino, l'uomo con le mani legate,
umiliato (i treni corrono intorno alla piazza
che si scurisce, il disegno difficile della pioggia, con la matita). Quando
siamo costretti a dormire, le parole diventano immagini,
ne correggi la traiettoria, sali
le scale che precipiti, corri verso l'orrore, il vetro lunare della strada, i
cavalli che scalciano, continuano a urtare la porta divelta
dietro cui non c'è riparo.
La notte ha sempre
lo stesso volto, la voce tenera, le labbra di tua madre
nel delirio dell'alba.
Il linguaggio si nasconde nell’immagine che rivela, diventa pensiero,
monologo che ci assedia.
Intanto, il gatto scherza con la tua mano, ti morde
le dita (da quale stanza senza pareti
è uscito? in quale spazio simmetrico noi siamo entrati?). Un’ombra
alta e scura s’avvicina, ha il volto bagnato, le mani
fredde, i capelli come vento dissolti dalla brina.
L'uomo che s'è appena tratto fuori dal sonno, s'affaccia al balcone su
quella pianura di case, casematte,
fili spinati,
ruspe, mura basse per impedirne l'accesso, alte gru cui
qualcuno è appeso a lentamente ruotare, camion coperti da un telo in
fila, l'enorme betoniera affamata, operai con elmetti
che s'affrettano per tornare, s'industriano intorno a un lungo corpo di
gomma che sembra guizzare. Il treno
che usciva dal tunnel è già scomparso, forse v'è rientrato.
Su quel piccolo balcone, il vento alza il foglio di un giornale dimenticato.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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