Sgranate immagini cineamatoriali ritraggono feste scolastiche in tempi di guerra, con il terribile contrasto di cui lo spettatore è da subito consapevole tra l'innocenza dei bambini e la violenza di ciò che li circonda, la loro inconsapevolezza e la loro istintiva sofferenza, icasticamente rappresentata da altre riprese di repertorio su una Sarajevo sventrata dalle bombe.
'Djeca' (Bambini) è il titolo originale, ma un po' fuorviante, di questo interessante film di Aida Begić, alla sua opera seconda, passato a Cannes nel 2012, presentato al XXXIV Festival Internazionale di Cinema e Donne di Firenze il 30 novembre u.s. in anteprima nazionale.
Begić aveva esordito nel 2008 con 'Snijeg' (Neve) premiato a Cannes dalla critica, e avente anch'esso al suo centro il tema della Bosnia investita dalla guerra negli anni '90. Ma quest'ultimo lungometraggio se è passato in Italia lo ha fatto inafferrabilmente, almeno per chi scrive. Due caratteristiche tecniche ci pare siano messe al servizio di quanto Djeca vuole esprimere.
Un primo elemento è il sonoro nel quale detonazioni distorte simili a bombe e scoppiettii minacciosi si odono costantemente: oltre che in vari altri momenti (quei rumori sono nella testa degli ex bambini bosniaci), così quando il bagno guasto dei vicini emette strani latrati; così quando, in una scena effettivamente liberatoria e toccante, i due orfani di guerra che ne sono protagonisti, Rahima e Nedim, di fede musulmana, spesso in struggente e amorevole conflitto come tra madre e figlio, si incontrano nei sottopassaggi quasi catacombali, sozzi, della Sarajevo contemporanea, allo scoccare del nuovo anno (di qui il titolo beneaugurale con il quale il film circolerà nel nostro paese: 'Buon anno Sarajevo'), e allo scoppiare dei mortaretti, lanciati da gente in qualche modo presa dal valzer dei festeggiamenti, si abbassano istintivamente quasi a ripararsi, ma poi scoppiano in un sorriso in fondo gioioso e pieno di speranza recuperando subito il controllo della realtà: è l'ultimo dell'anno e nel nuovo anno le cose potranno anche andare meglio. Se ne vanno a casa insieme.
Lo spettatore sa che è solo una speranza, e forse mal fondata, perché Rahima ha da poco ricevuto una visita della polizia inviata da un arrogante ministro del governo in carica, il cui figlio è compagno di scuola e in costante lite con Nedim (qui si può cogliere una lieve aporia dell'intreccio, data l'inverosimiglianza che i due ragazzi frequentino la stessa scuola). Ma la speranza in un futuro migliore, o la forza che permetterà comunque di affrontarlo quale che sarà, è anche scandita dalla Pastorale beethoveniana che accompagna gli ultimi minuti del film e i titoli di coda.
L'altro elemento è il frequentissimo uso della mdp a spalla, talvolta tremolante, che segue da varie angolazioni le camminate veloci di Rahima nei suo spostamenti nella stessa area degradata della città, in costante apprensione (perfettamente restituita dallo strumento tecnico) per i comportamenti di Nedim, un ragazzo comprensibilmente al limite della devianza, che rischia di cacciarsi in situazioni poco raccomandabili: Rahima viene ripresa da dietro, di profilo e in un unico caso di faccia, così da fare vedere l'arrivo di un camion veloce che per poco non la investe, sovrappensiero.
Rahima, ventenne, fa con grande dedizione da madre al fratello adolescente, lavorando come cuoca in un ristorante. Rahima tiene sempre un velo: una giovane sua parente le chiede il perché quando Rahima per un momento se lo toglie, scuote la testa e i capelli, molto più bella. Rahima non risponde ma lo spettatore lo può capire.
È sbagliato affermare che la scelta di Rahima è una scelta di fede, di ricerca di un conforto nella religione, come pure si è interpretato: no, essa è innanzitutto una scelta tesa a rimarcare la propria identità culturale (e dunque religiosa, dopo le violenze subite dai bosgnacchi, i bosniaci musulmani) durante la guerra. Già, la guerra.
Fondo storico del film, ambientato per l'esattezza nella Federazione di Bosnia e Erzegovina di oggi (abitata da croati cattolici e musulmani, quella con capoluogo Sarajevo, e la principale delle tre parti costitutive la Repubblica di Bosnia-Erzegovina), ordinata sulla base degli accordi di Dayton secondo una complessa articolazione statutaria, che tiene conto in maniera estremamente puntuale, e inevitabilmente fragile, degli equilibri tra le tre componenti etniche.
Non mancano a mio avviso alcuni stereotipi, incongruenze, aspetti di contenuto meno convincenti. Il governo della Federazione di Bosnia e Erzegovina di cui è ministro il padre del ragazzo "cattivo" e della sua banda di compagni, che sfottono e provocano Nedim, è un governo a maggioranza croata e cattolica, ma le devastazioni di Sarajevo negli anni '90 furono opera serbo-bosniaca (e cristiano ortodossa).
La guerra dunque diventa anche qui (come in film quali il recente 'Venuto al mondo' di Castellitto), nonostante tutto, un fenomeno neutro, nella sua tragicità, del quale si sceglie di non enfatizzare le responsabilità storiche, di definire chi sia stata a suo tempo la vittima e chi il carnefice; e non soltanto ad essa sono attribuite le cause della critica situazione attuale del paese, della sua transizione lunga e difficile: le "privatizzazioni criminali" (come testualmente dice lo speaker di un telegiornale visto da Rahima) come linea di politica pubblica sviluppata e teorizzata dal "cattivo" governo in carica e difesa dal "cattivo" del film in televisione.
Quando si parla di privatizzazioni si sottintende sempre che c'è il liberismo di mezzo, e che lo stato non è abbastanza presente a dirigere e proteggere la vita pubblica, i più deboli. C'è però anche chi sostiene che in Bosnia lo stato e le banche investano troppo poco per rilanciare l'economia, per esempio aiutando l'imprenditoria (e le statistiche dicono che la Bosnia-Erzegovina è fra i paesi europei uno di quelli con un numero molto basso di piccole imprese, cfr. il sito dell'Osservatorio Balcani e Caucaso).
Nel film, cattivi, aggressivi, violenti sono anche i padroni del ristorante, al servizio mellifluo dei loro clienti più ricchi. Padroni e subalterni, privato e pubblico, cattivi e buoni. Così come un po' banalotta e schematica è la scena in cui a casa dei giovani protagonisti si reca un'assistente sociale troppo ligia verso il suo ruolo, minacciosamente e con scarsa umanità protesa a rilevare gli elementi per i quali Rahima rischiava di non essere materialmente all'altezza del mantenimento del fratello.
Simili stereotipi corrispondono senza dubbio alle convinzioni effettive della autrice, laddove le difficoltà del periodo postbellico tuttora insuperate sono assai più complesse e non possono certo addebitate meccanicamente e semplificatoriamente, con un approccio meccanico e ideologico, a quelle diaboliche e criminali politiche di privatizzazione e liberalizzazione che spesso in molti paesi del mondo globale non sono altro che il tentativo malriuscito di sanare i guasti, le inefficienze, la corruzione e gli indebitamenti prodotti e maturati dal 'pubblico' in contesti più o meno drammatici.
Bisognerebbe sempre ricordarsi da dove si parte, non solo dove si arriva. E in tal senso ci dovrebbero essere sempre di ammaestramento le parole allusive ma giustamente famose, perché immortali, e che in questi anni suonano assai attuali, della prefazione di Livio alla sua 'Storia di Roma ab urbe condita', secondo il quale "siamo arrivati a tempi nei quali non riusciamo a tollerare né i nostri errori né i rimedi a tali errori" (ad haec tempora quibus nec uitia nostra nec remedia pati possumus perventum est).
Ma rispetto a questi nostri giudizi più marcatamente politici lo spettatore potrà avere punti di vista diversi. Per chiudere sul film, esso prende corpo soprattutto nella seconda parte, mentre la parte iniziale fa un po' di fatica a decollare. La protagonista (Marija Pikić) recita asciutta, espressiva, senza sbavature. Una magistrale rappresentazione della forza e del coraggio di una donna che a schiena dritta fa il proprio dovere di sorella-madre e di lavoratrice, senza dubbio sorretta da forti convinzioni della dignità datale dalla sua cultura.
Ma in generale tutti gli attori sono ben diretti. Opera che merita di essere vista e che, al di là di alcune perplessità che può suscitare, pone Begić fra le figure di maggior spicco del contemporaneo cinema balcanico.
Giovanni A. Cecconi