
di Maurizio Musu
C'è ancora domani, film diretto da Paola Cortellesi e sua opera prima, è ambientato nella seconda metà degli anni ‘40 a Roma e racconta la storia di Delia (Paola Cortellesi – brava nel suo ruolo), sposata con Ivano (Valerio Mastandrea – in un ruolo scomodo e spesso manierato, forse per quell’abitudine attoriale che lo ha sempre visto in ruoli mai così marcatamente machisti! ma più spesso scanzonato -), da cui ha avuto tre figli.
La donna riveste esclusivamente i ruoli di moglie e madre e tanto basta per definirla.
Ivano, non perde mai l’occasione per sottolinearne la cosa, talvolta con un tono sprezzante e altre affermandolo con l'uso della forza.
L’uscita di scena dei figli, le finestre che vanno chiudendosi per non far sentire e vedere agli altri ciò che accade dentro casa, i lividi che appaiono e svaniscono nel tempo di un fotogramma.
Un effetto ottico che diventa un gioco di rimandi in cui la violenza è l’atto chiuso fra le quattro mura di casa ma mai realmente privato e ben custodito.
I figli, chiusi nella loro camera, sentono e percepiscono il suono della violenza così come i vicini seduti nel piazzale.
A Delia il compito di nascondere lividi e sofferenza. Ma gli occhi non mentono e non nascondono. Per lo meno mai fino in fondo!
Sor Ottorino (Giorgio Colangeli – ruolo e soggetto ben riuscito! sempre con la battuta pronta, nonostante alcune di stampo maschilista, ma tant’è che gli si perdonano per quel senso di comicità che il ruolo riveste nel film -),padre di Ivano; uomo anziano e malato accudito dalla nuora, dispensa al figlio consigli utili su come mettere in riga una moglie che, “pur essendo una brava figliola non è una di famiglia e parla troppo; per questo non serve picchiarla tutti i giorni ma solo qualche volta, ma con delle botte ben date”, in modo da renderla mansueta come accaduto con sua moglie/madre – suicidatasi per liberarsi dal marito! -.
L'unica in grado di recare sollievo a Delia è l'amica Marisa (Emanuela Fanelli – ruolo scritto su misura per l’attrice, in cui ironia e serietà caratterizzano un ruolo determinante nell’evoluzione umana del personaggio Delia), con la quale si lascerà andare a qualche momento di leggerezza e di confidenze intime, uno squarcio di Bellezza e Umanità che porgono allo spettatore l’immagine, forte ed incisiva, che nessuna lotta può essere vinta se si è soli.
Con l'arrivo della primavera l'intera famiglia è in fermento per il prossimo fidanzamento della primogenita, Marcella (Romana Maggiora Vergano – ruolo complesso quello della giovane attrice, fra ingenuità e determinazione, Marcella diventa, a sua insaputa, la genesi della Liberazione, ben più imponente e decisiva di quella degli alleati,per Delia e le donne in generale!).
Marcella è l’agnello sacrificale per far emergere socialmente la propria famiglia; sposare un bravo ragazzo, proveniente dal ceto borghese, come Giulio (Francesco Centorame – carnefice ed egli stesso, forse , “vittima” dell’impianto socio/culturale della società costruita e definita da generazioni di uomini forti), liberandosi così anche dal peso della sua famiglia imbarazzante, dovrebbe consegnarla, secondo lo sguardo ingenuo della ragazza, ad un futuro felice e non violento come quello della madre.
Ma la costituzione sociale non prevede ruoli o posizioni di rilievo per il genere femminile; essere madri e moglie è IL Ruolo predefinito a loro relegato, studiare è solo per i maschi, come quel compenso differente fra uomini e donne che da sempre genera differenza e diffidenza.
I sogni della ragazza però si infrangono in una deflagrazione che nel cuore della notte rovina non solo i suoi sogni ma anche quelli del padre e del nonno.
Delia è spettatrice consapevole, il deus ex machina che muove i fili sottesi ad un piano che prenderà forma giorno dopo giorno con sempre maggior convinzione, perché c’è ancora domani.
Il giorno dopo qualcosa accadrà! e quel qualcosa sarà un legante indissolubile che unirà non solo madre e figlia, ma tutte le madri e tutte le figlie. Non sveliamo oltre.
Film emozionale, emozionante e di grande empatia fin dalla prima scena, traumatica ed espressiva – uno schiaffo alla protagonista che investe lo spettatore come un trauma da cui è difficile separarsi per l’intera pellicola, per giungere ad una conclusione di emozioni e lacrime corali che non lascia indifferenti. Nessuno, o quanto meno coloro che sono sensibili e umani. Dove umano è il pathos, inteso come sentimento di condivisone, che lega vittima e spettatore.
La Cortellesi costruisce un legame indissolubile in cui si intrecciano La Storia - la liberazione dal regime nazi-fascista e l’attualità con L’ennesimo femminicidio e L’ennesima violenza contro le donne.
La sceneggiatura diventa lo squarcio a colori di un film in bianco e nero che non fa sconti a nessuno; il sangue e i lividi di Delia diventano quelli delle cronache attuali.
Delia. Marcella e tante altre donne. Giovani. Madri. Mogli. Fidanzate. Compagne. Nonostante Il Regime sia appena caduto, nonostante la Liberazione degli Alleati, nonostante nell’oggi un primo ministro donna, le violenze di genere non sono mai cessate.
Forse, mai come ora, eventi così brutali stanno determinando la necessità di porre mano ad una questione culturale che non ha più bisogno di pause e rimandi.
In questa circolarità intrigante e suggestiva, dallo schiaffo iniziale a quel tema della bocca chiusa che crea unità oltre che condivisione la Cortellesi è abile nel gestire ritmo, contenuti, suggestioni sceniche e emozionali.
Uno sguardo mai stereotipato o femminista ma sempre critico e femminile. Di un femminile sensibile generoso, critico.
Soprattutto mai banale! Questo l'atto più sublime del film.
Una regia che pare accarezzare ogni soggetto interessato e mai fuori contesto nella sua interpretazione dei fatti; che siano velati o evidenti.
Tutti sanno, perché tutti sanno vedere e non girano più la faccia oltre quelle finestre chiuse - che solo un attimo prima erano spalancate al cortile e alla vita -.
La regista, infrange il muro omertoso in cui sentirsi vittime comuni e nonostante la violenza subita, rende le donne sorelle, madri, amiche, compagne di lotta!
In questo scenario condiviso al femminile, la domanda all’uomo, inteso come padre, fratello, marito, compagno, diventa dirimente e necessaria di risposta, privata e corale che sia.
Nella disumana eteronimia del patriarcato misogino e violento, che ha attraversato generazioni di padri e figli, si innesca, come una deflagrazione imponente, la lotta/denuncia di una donna che trasforma il senso di una sconfitta predeterminata in un motto di ribellione individuale prima, collettivo successivamente - oltre che transgenerazionale -, in cui la parola prima è miccia – “La sera dei miracoli” di Lucio Dalla ne è colonna sonora -; poi Epifania di una rivoluzione umana prim’ancora che sociale, in quel silenzio condiviso – “A bocca chiusa” di Daniele Silvestri altra colonna sonora-, come compimento ultimo di una rivoluzione sociale prim’ancora che umana.
L’effetto scenico tiene lo spettatore incollato alla sedia fino alla fine, le lacrime sono elemento di condivisione umana e comunitaria, come la rabbia di chi è vittima prim’ancora del vagito. Il femminile, come rappresentante dell' essere donna senza categoria sociale che le spetti.
In questa dicotomia ancestrale uomo/donna (maschile/femminile), la Cortellesi infrange tanti muri culturali, uno su tutti, il germe del patriarcato che da sempre ha investito la nostra società civile, indipendentemente dalla latitudine e dalla longitudine, nonostante la convenzione di Istanbul, o forse proprio per l’esistenza della stessa che da anni difende e tutela le donne.
Con uno sguardo fermo e deciso Delia, Paola Cortellesi, sale le scale accompagnata da mille altre compagne di lotta.
Un film “manifesto” (spopola al botteghino) che ha il grande merito, e plauso, di centrare con grande capacità narrativa la più atavica delle questioni civili, la parità di genere.
Paola Cortellesi pone una pietra miliare nella cinematografia italiana.
Commenti
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